Amore, desiderio e altri affanni
“Il gioco” di Carlo D’Amicis
di Martin Hofer / 27 settembre 2018
Nella sua irregolarità, la triangolazione tra cuckold, bull e sweet sembra tracciare un’area dell’esistenza sufficientemente vasta da coprire tutti i ruoli dell’umano vivere. Uno dei meriti di Il gioco (Mondadori), nuovo romanzo di Carlo D’Amicis, è proprio quello di descrivere in modo non superficiale le complesse trame che si vengono a intrecciare in una specifica tipologia di rapporto a tre.
“Il gioco” a cui fa riferimento l’autore ha regole molto precise, che vanno ben al di là di una semplice “scappatella assistita”. Il cuckold, per esempio, non è soltanto un “cornuto” che gode a osservare la propria donna tra le braccia di un altro, ma è anche un master, un benefattore e, perché no, un magnaccia.
E lo stesso vale per le altre due figure: il bull – incrocio tra De Sade e Casanova, maschio alfa e stallone da monta – e la sweet, nel contempo regina e ancella, geisha e dominatrice, adultera e compagna devota.
Organizzato in forma di intervista a un cuckold (Giorgio, detto il “Il Presidente”), un bull (Leonardo, “Mister Wolf”) e una sweet (Eva, “The First Lady”), con tanto di domande dell’intervistatore e n.d.r. che descrivono l’atteggiamento e le reazioni dei personaggi, il romanzo scorre in tutte le sue cinquecento pagine abbondanti senza mai dare l’impressione di trovarci di fronte a un tentativo di “opera scandalosa” d’autore.
Per quanto le scene esplicite non vengano certo a mancare – una torrida partita di ping pong tra minorenni immortalata da un prete, un tentativo di stupro, orge e scambismi di tutti i generi – Il gioco non è un romanzo che mira a svelare il fascino scabroso della borghesia. Più semplicemente, D’Amicis racconta l’amore, e le forze attraverso le quali l’amore trova il suo movimento: il piacere del gioco, con fantasie sfrenate e regole d’acciaio, e la libertà, talvolta assoluta, talaltre somministrata con i crismi dell’imposizione.
«Credo di essere un uomo generoso, perché concedo alla donna che amo il bene più ambito e prezioso: la libertà. Ma non mi piace vantarmene troppo, alla fine io sono solo un vecchio cornuto». (pag. 372)
«Avrei potuto concederla a chiunque, ovunque e in qualunque momento, e quella perfetta coincidenza tra possesso e dono mi svelava il senso profondo dell’amore – avere per dare». (pag. 417)
Delle tre parti, la più riuscita sembra quella del bull Leonardo. Cultore del sesso come arte della disciplina e del sacrificio, Mister Wolf acquisisce i gradi di samurai della fornicazione grazie a un addestramento militaresco appreso dal padre carabiniere e perfezionato in parcheggi, privè e camere da letto.
«Non mi dispiacerebbe se alla fine di questa conversazione lei e i suoi lettori riconosceste in me un valoroso, seppur stanco, guerriero». (pag. 10)
Un po’ Mickey Sabbath, un po’ samurai integerrimo, la storia di Leonardo rivela il destino per natura declinante di quella che, all’apparenza, dovrebbe essere la figura “forte” al vertice del triangolo. L’ansia da prestazione e la necessità di distacco sentimentale richiesti dal gioco a un bull segnano inevitabilmente una caducità che, nel caso di Leonardo, ispira una certa tenerezza, sia da parte del lettore che da parte degli altri personaggi. L’aspetto interessante di Mister Wolf sta anche nella netta divergenza fra l’immagine offerta dalla sua versione e l’immagine restituita dai capitoli dedicati alla sweet e al cuckold: giovane, prestante e disposto a tutto pur di soddisfare la fantasia di una coppia nel suo racconto, maturo, cardiopatico e innamorato man mano che la trama avanza con il passaggio del testimone alla coppia.
«Non riusciva a capacitarsi che il sesso con Mister Wolf fosse diventato un atto sentimentale (così lo definì) e ripeté incredula il concetto per altre due o tre volte.
In altre parole, la interruppi, non ti scopa…
Male, riconobbe Eva.
Hai presente, no?… La tenerezza, l’emozione, l’ansia di non riuscire…» (pag. 459)
Se Mister Wolf è il personaggio dall’interiorità meno accessibile, ma forse più lineare, Eva e Giorgio mettono in mostra la loro ambiguità senza alcun tipo di ritrosia. Come può una giovane ed eccentrica cubista innamorarsi di un dottore ossessionato dalla sua piscina e dal giudizio di un padre tiranno?
La risposta sta in una visione totalmente rovesciata di possesso e libertà: Eva trova la sua indipendenza nella manipolazione di Giorgio e, allo stesso tempo, patisce il controllo del marito quando è invitata (se non costretta) alla trasgressione.
«La troppa libertà spezza il collo» recita un detto popolare, ed è forse per questo motivo che in certi casi Eva preferisce inventarsi scappatelle, piuttosto che tradire realmente.
«…Immaginate di potere avere tutti gli amanti che volete…
…Immaginate di non essere proprio voi, a volerli…
…Immaginate che la vostra volontà conti davvero poco, diciamo pure niente…» (pag. 323)
Soltanto dopo aver prestato ascolto alle tre campane deduciamo che a tirare le fila del ménage à trois è in fondo il sottomesso: il professor Giorgio Spina, cornuto e mazziato in camera da letto, accentratore e maniaco del controllo fuori. Come giudicare quest’uomo avanti con l’età, mezzo impotente, assuefatto all’umiliazione eppure mefistofelico nel suo voler imporre agli altri le proprie perversioni e i propri desideri? Pienamente capace di ordire trame disgustose – ma anche tenero e altruista nei confronti dei suoi compagni di avventura – Spina è il più zelante seguace del gioco: il gioco è una filosofia di vita, e le sue regole non possono essere tradite (e così farà, almeno fino alla notte di Rimini…).
Da “Le Ore” ai club privè, fino a toccare le nuove frontiere di internet, Il gioco è anche un interessante trattato sociologico sul modo di vivere il sesso nel nostro paese dagli anni Settanta a oggi.
Meno riuscito, invece, il tentativo (ormai onnipresente nella narrativa italiana) di inserire la piccola storia degli individui all’interno del quadro della cosiddetta “storia con la s maiuscola”. I fatti di sangue legati a mafia e anni di piombo sembrano confondersi con i volti e gli eventi della storia pop – Marina Frajese, Paolo Panelli e Bice Valori e altri – non soltanto per fornire al lettore appigli temporali, ma anche per alimentare un progetto di narrazione tutto sommato poco funzionale alla trama principale.
Che cosa vuole suggerirci D’Amicis in questo romanzo centrifugo? Forse, che il desiderio non può essere sempre uguale a se stesso, che il gioco è bello quando ridefinisce di continuo le proprie regole.
Non c’è conformismo peggiore di una trasgressione reiterata, meccanica, non c’è repressione più grande di chi si nega l’amore.
Dopo decenni di frequentazione, quando Leonardo, Eva e Giorgio vedono andare in fumo la loro utopia libertina, i tre sembrano costretti ad accogliere la loro condizione.
Lo fanno quasi con stupore, come se fosse capitato per caso. Incredula, di fronte agli anni che passano e a un legame che li ha tenuti insieme per buona parte della loro vita, Eva domanda al marito: «Giorgio, tu pensi che l’amore sia quello che resta dopo il sesso?» (pag. 459)
(Carlo D’Amicis, Il gioco, Mondadori, 2018, pp. 528, euro 20)
LA CRITICA
Carlo D’Amicis tasta la materia erotica per raccontare l’amore e il desiderio, il confine tra possesso e libertà, in un romanzo che si tiene ben alla larga dall’opera-scandalo. Una storia eccentrica, a tratti spassosa, che ripercorre indirettamente gli immaginari, le fantasie e le pratiche che hanno alimentato la sessualità degli italiani negli ultimi quarant’anni.
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