Il punto sull’accoglienza #5
Restiamo umani(tari)
di Francesco Scarcella / 2 ottobre 2018
Nel precedente articolo avevamo anticipato, prima ancora che venissero resi pubblici e approvati all’unanimità dal Consiglio dei ministri, i contenuti nel decreto Salvini. Sono stati confermati i provvedimenti che avevamo preannunciato, su tutti quello che, se passerà indenne al vaglio del Parlamento e del Capo dello Stato, avrà un impatto drammatico sul tessuto sociale italiano: l’abolizione della protezione umanitaria.
Per una spiegazione più esaustiva sui tre tipi di permesso di soggiorno ai quali può aspirare un richiedente asilo rimandiamo al nostro primo articolo. In questa sede ci basta ricordare che la protezione umanitaria entra in gioco quando la commissione territoriale, o il giudice in fase di ricorso, ritengono che il richiedente non abbia diritto alla protezione sussidiaria o all’asilo politico. Vengono dunque valutati indicatori di maggior discrezionalità che vanno dalle fragilità di ordine psicologico a una comprovata integrazione durante il periodo di accoglienza.
Se il decreto Salvini venisse confermato così com’è, la clandestinità potrebbe aumentare del 25%, e non stiamo parlando di delinquenti o potenziali terroristi, ma di persone normali che dopo una traversata dolorosa hanno fatto parte del nostro circuito di accoglienza impegnandosi in percorsi di alfabetizzazione e formazione lavorativa.
Ma facciamo degli esempi concreti di richiedenti asilo che, con il decreto Salvini, si vedrebbero negati il permesso di soggiorno per motivi umanitari (al netto delle storie specifiche che, in molti casi, sono davvero angoscianti):
Caso 1: Sono orfano, nel mio paese non c’è guerra (almeno sulla carta) ma sono fuggito da povertà e dalle bande del mio quartiere. Ci ho messo tre mesi per raggiungere la Libia dove sono stato arrestato. Più volte ho subìto torture prima di riuscire a imbarcarmi per l’Italia. Da quando sono sbarcato e sono entrato nel circuito di accoglienza mi sono sempre impegnato a scuola di italiano e in poco tempo ho raggiunto un livello di lingua soddisfacente. Ho anche fatto un corso di formazione professionale come facchino e un tirocinio presso un albergo. Sono stato seguito da una psicologa che ha constatato delle fragilità dovute al mio vissuto traumatico.
Caso 2: Sono scappata dal mio paese perché mio padre mi picchiava. Mi aveva promesso in sposa a un altro membro della sua tribù e non voleva sentire ragioni. Così con l’aiuto di mio fratello sono riuscita a raggiungere la Libia e poi a imbarcarmi per l’Italia. Il viaggio è stato duro e ho pensato che non sarei mai arrivata. Voglio lasciarmi alle spalle il passato e spero di potermi costruire una vita qui. Sto andando a scuola di italiano ma ho grosse difficoltà perché sono analfabeta anche nella mia lingua madre. Sono brava a cucire e mi hanno anche fatto fare un corso di sartoria.
Caso 3: Nel mio paese non avevo niente. I miei genitori mi hanno abbandonato e ho vissuto di espedienti. Dormivo per strada. Un amico mi ha aiutato a partire per l’Italia. È stato un viaggio difficile ma quando sono sbarcato ho ringraziato Dio e mi sono rimboccato le maniche. Ho studiato subito la lingua italiana e appena possibile ho chiesto aiuto agli operatori del mio centro per cercare dei corsi di formazione professionale. Ho appena concluso un corso per pizzaiolo e spero che questo diventi il lavoro della mia vita. Vorrei costruirmi una famiglia in questo paese.
Sono soltanto tre esempi, ma di storie dello stesso tenore ce ne sono tante. Su tutte è valido un principio sancito dalla Corte di Cassazione: per la concessione della protezione umanitaria è doveroso accertare il livello di vulnerabilità effettuando il bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente. E ci sembra un discorso sensato considerando che nella maggior parte di casi sussiste una reale volontà di integrazione proprio perché ciò che si è lasciati alle spalle rappresentava una prospettiva di vita poco dignitosa.
Ecco, senza la protezione umanitaria Caso 1, Caso 2 e Caso 3 e le decine di altri Casi si ritroverebbero clandestini, fuori dal circuito di accoglienza ed esposti a sfruttamento lavorativo e illecito. Centinaia di brave persone, dunque, che hanno subìto sulla propria pelle una navigazione lacerante e vissuto con speranza il periodo di accoglienza in Italia si ritroverebbero per strada con un destino che va addirittura al di là dell’incertezza.
Ci sembra inverosimile recludere tutti in qualche Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), sia per un discorso di costi che soprattutto di diritti umani, dunque ci auguriamo che il Parlamento e il Capo dello Stato facciano il possibile affinché si possa restare umani(tari).
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