Perdersi lungo il confine
Su “Soldado” di Stefano Sollima
di Francesco Vannutelli / 22 ottobre 2018
Tre anni fa, Sicario aveva contribuito a confermare Denis Villeneuve come uno dei registi più importanti nel nuovo panorama di Hollywood. La capacità di cambiare genere del regista canadese trovava con questo western di frontiera un nuovo linguaggio con cui declinarsi: la violenza. Sicario era un film a suo modo perfetto, carico di tensione, complessità psicologica e di scene destinate a diventare memorabili (la sparatoria al casello; il raid con i visori notturni). C’era bisogno di un seguito? Assolutamente no. Eppure, tre anni dopo eccoci qui a parlare di Soldado, un film che parte da premesse allo stesso tempo uguali e diverse, senza riuscire a reggere il confronto con il predecessore.
È cambiato molto tra i due film. La protagonista femminile non c’è più, ci sono meno Stati Uniti e più Messico e, soprattutto per l’Italia, c’è un nuovo regista dietro la macchina da presa: Stefano Sollima. La carriera da regista criminale del figlio di Sandokan (suo padre Sergio ha diretto quasi tutti i film con Kabir Bedi tratti da Salgari) ha fatto il salto oltreoceano dopo la Magliana con relativa banda, la Napoli di Saviano e le varie mafie di Roma Capitale. Un’affermazione importante per uno dei pochi registi italiani – forse l’unico – davvero capace di fare cinema di genere ad alto livello.
Soldado sostituisce la droga con il traffico di esseri umani. Lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, i cartelli fanno passare migranti, ormai molto più redditizi della cocaina. Dopo una serie di attentati suicidi di matrice islamica, con i kamikaze che si pensa siano arrivati in Nord America attraverso il confine, il presidente degli Stati Uniti decide che bisogna fare qualcosa e che va fatto direttamente in Messico. Viene chiamato Matt Graver, l’agente CIA interpretato da Josh Brolin già visto in Sicario, con il compito di scatenare una guerra oltre confine per indebolire le organizzazioni criminali. Graver organizza un piano con Alejandro Gillick (Benicio Del Toro), che vuole vendicarsi con i cartelli per aver sterminato la sua famiglia, per rapire la figlia del capo di uno dei cartelli più importanti.
È cambiato il regista, manca la protagonista, ma lo sceneggiatore è lo stesso, quel Taylor Sheridan che da qualche anno si sta affermando come uno degli scrittori più interessanti di Hollywood, nel solco di Cormac McCarthy. Dovrebbe essere una garanzia, e invece è proprio nel copione che Soldado ha la sua maggiore debolezza, soprattutto quando si azzarda un confronto con il primo film.
In Sicario, Emily Blunt interpreta l’unico personaggio normale in un mondo di violenza estrema. Da semplice agente dell’FBI, con un’esperienza non trascurabile sul campo, si ritrova proiettata in una realtà completamente diversa in cui il confine tra legalità e crimine è invisibile. I servizi segreti non sono diversi dai cartelli del narcotraffico, i buoni, in sintesi, non si distinguono dai cattivi. In Soldado questo punto di vista innocente sparisce. Senza Emily Blunt resta solo l’arbitrio delle dinamiche criminali. Non sembra più esserci un elemento morale esterno, non c’è uno sguardo altro che si domandi perché.
La rimozione della normalità lascia Gillick e la sua ossessione di vendetta al centro di tutto. Non c’è più ambiguità, le sfumature si disperdono. Gli sviluppi della trama sono affidati a svolte prevedibili – il rapporto che Alejandro sviluppa con la bambina sequestrata –, deboli o inverosimili – non diciamo nulla per non anticipare la visione.
Sheridan sembra essersi limitato a replicare e amplificare le formule più semplici che avevano contribuito al successo di Sicario tralasciando i livelli superiori di lettura. Ne esce fuori un film privo della stessa forza e incapace di offrire qualcosa di più oltre all’azione pura e semplice. Se non altro, Sollima si conferma, anche alle prese con il cinema statunitense, un regista di livello alto.
(Soldado, di Stefano Sollima, 2018, azione, 124’)
LA CRITICA
Seguito non necessario di Sicario, Soldado segna l’esordio nel cinema statunitense di Stefano Sollima. Azione di grande qualità, ma manca la complessità psicologica che aveva fatto brillare il primo film.
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