Aspetta primavera, Forgione!
“Napoli mon amour” di Alessio Forgione
di Francesco Mila / 5 novembre 2018
«Mentre la baciavo, pensai che forse la povertà era quella cosa lì: essere felici, ma sapere che quella felicità non sarebbe durata a lungo, perché mentre durava ed esisteva c’era già qualcosa di nocivo, nel resto del mondo, nel resto della propria vita, nell’aria e anche nella felicità, che minava la felicità stessa». Così, a pagina centotrentotto del suo primo romanzo, Napoli mon amour (NN editore, 2018), Alessio Forgione riassume lo stato d’animo di un ventinovenne disoccupato, con una predilezione per la birra scadente e una teoria giustissima sul riscaldamento estivo della Peroni grande; con un amore mal corrisposto per Napoli e per il Napoli (ndr l’elenco non va necessariamente inteso nell’ordine qui proposto); innamorato di un’aspirante assistente alla fotografia in cappotto color cammello. Con Napoli mon amour esordisce un autore dallo stile essenziale, che scompone la trama in un itinerario affettivo attraverso la sua città. Amoresano – che dei guappi di Gomorra ha soltanto il nome – trascorre le serate assieme all’amico Russo, bartender appassionato di modellismo e serie televisive, facendosi i conti in tasca del disoccupato – quelle odiosissime sottrazioni e addizioni conosciute dagli studenti e da chi ha avuto fame. Smette con le ragazze perché costano troppo e vagheggia l’espatrio ma non lascia Napoli, dove campa esaurendo i risparmi e appoggiandosi saltuariamente all’obolo genitoriale.
Si aggira per la città alla ricerca di lavoro, riceve proposte grottesche che rifiuta con un certo sdegno, si iscrive a un concorso pubblico ma procrastina. Vorrebbe scrivere – scrive –, stronca mentalmente un brutto romanzo di Nick Cave e pensa a Ferito a morte di La Capria come molto vicino alla perfezione.
«Pensai che dovevo scrivere racconti mentre aspettavo l’idea giusta per un romanzo. Considerai che ne avevo già cinque e che fosse giusto continuare […] Pensai che passare tutto il giorno in casa a scrivere era più o meno il solo lavoro che m’interessasse fare».
Amoresano incontra La Capria durante una trasferta romana assieme alla succitata aspirante assistente alla fotografia, più giovane abbastanza da fraintenderlo, fastidiosamente distratta e abbastanza bene da non tenerne in conto la precarietà. Nina – che per molte pagine chiede a prestito il nomignolo alla Lolita di Nabokov (parrebbe per ammantarsi di mistero, e agitare Amoresano che Nabokov non lo ha mai letto) – è una studentessa di filosofia di ventun anni, con una domanda irrisolta per l’Erasmus e un cappotto alla Don Raffaè.
«Vengono in mente Il giovane Holden in lotta contro il mondo adulto e le sue convenzioni […] e i monologhi terminali e vitalistici di Céline» ha scritto Filippo La Porta di questo romanzo; si capisce allora cosa intendono certi recensori assimilando Forgione a Céline: nel dipanarsi progressivo della relazione il romanzo assume un tono sentimentale ma non lezioso, che a tratti ricorda uno dei capitoli più intensi di Viaggio al termine della notte, l’incontro fra Bardamù e Molly durante la parentesi America. Nina ha poco o niente dello spirito di Molly ma Forgione sa essere onesto nel delineare i suoi personaggi. Forgione/Amoresano e Bardamù/Céline s’assomigliano nel trattamento inclemente riservato a se stessi; in una tendenza all’esasperazione e alla deformazione – in Forgione addolcita da uno stile medio ma ugualmente implacabile – che è forse la voce stessa che il personaggio La Capria riconosce all’autore.
Capita, leggendo il resoconto dell’incontro fra La Capria e Amoresano di sentirsi tristi, per la piccola gioia che Forgione concede al suo personaggio, che è esattamente quello che chi scrive vorrebbe per se stesso: il parere o – meglio – l’incoraggiamento del più vivo fra i propri modelli.
La bella giornata di Forgione/Amoresano, come a seguito di un’immersione, riemerge nel ricordo di giorni d’infanzia trascorsi a mare, in un’impressione di felicità disattesa che Amoresano è persuaso di poter rivivere nel rapporto con Nina. Quella cultura dell’ozio, l’attitudine a dilatare la bella giornata dei personaggi di Ferito a morte in Forgione parrebbero sostituiti da una vergogna, dalla percezione indelebile di una catastrofe, che guastano ogni principio di spensieratezza. Amoresano somiglia a e si sposta come una larga ferita: sembrerebbe cercare col dito di provocarsi infezione. Si sforza di nascondere la propria miseria, ma si scialacqua e si abbandona per qualche tempo alla grande occasione. Non si comprende appieno l’attitudine della ragazza di cui Amoresano si innamora con troppa leggerezza, o, per meglio dirlo con le parole di Céline: per cui prova fin da subito «quello specialissimo sentimento di fiducia che nelle persone impaurite prende il posto dell’amore».
Si direbbe che il personaggio di Forgione non ami – non ne sarebbe capace – la ragazza col cappotto color cammello e che ci sia, fin da principio, una distanza inconciliabile fra loro due, dovuta a specifiche e, almeno nel primo caso categoriche, visioni del mondo: romantica, in senso larochelliano la visione di Amoresano; progressista, più concreta la visione di Nina.
Pur non entrando – eccezion fatta per l’episodio di La Capria – nel merito del racconto di una formazione letteraria, Forgione si riallaccia al canone di Chiedi alla polvere di John Fante o del Martin Eden di Jack London. La letteratura è, per Amoresano, l’unico vero interesse e riusciamo, prestando ascolto alla sua voce, a ricostruirne le simpatie, spesso dichiarate altrove sottese, e a immaginare che scrittore sarebbe stato se Forgione non gli avesse imposto un epilogo – se la ferita di Amoresano avesse suppurato e dal dolore fosse germinato un romanzo.
(Alessio Forgione, Napoli mon amour, NN editore, 2018, pp. 223, € 16.00)
LA CRITICA
«L’amore non è altro che una grossa emorragia. Arriva qualcuno, ti dà una coltellata e poi te ne vai in giro sgocciolando».
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