“Dolci colline di sangue”: cinquant’anni nelle viscere del Mostro
Uno dei libri più importanti sul Mostro di Firenze è irreperibile: perché?
di Alessio Belli / 27 novembre 2018
«Tanto di domenica mattina non succede mai nulla…»
Il giornalista sostituito dal collega Mario Spezi domenica 7 giugno 1981, giorno dei ritrovamenti dei corpi di Giovanni Foggio e Carmela De Nuccio a Scandicci.
Come mai uno dei libri più importanti sul Mostro di Firenze è fuori catalogo? A cinquant’anni dal primo omicidio, vecchie e nuove teorie vengono ridiscusse, ulteriori ipotesi formulate con il caso ancora aperto. Il giornalista Mario Spezi ha dedicato la vita al caso del Mostro: tra le persone più esperte e preparate sulla vicenda, ha formulato alcune delle ipotesi più significative. Peccato però che l’opera in cui espone la propria versione dei fatti sia irreperibile.
Nel romanzo-inchiesta Dolci colline di sangue, uscito per Sonzogno nel 2006, in seguito per Rizzoli, Spezi è sia il protagonista, sia il co-autore insieme a Douglas Preston, celebre scrittore americano di bestseller. I due presentano lo sviluppo del caso nella maniera più avvincente possibile, senza cedere al becero intrattenimento, usando come filo conduttore l’attività del cronista di La Nazione, legata alle indagini fin dal macabro ritrovamento del 7 giugno 1981. Il connubio è vincente: se Preston fornisce tempi e tagli da thriller, rendendo vivi dialoghi, incontri e ricostruzioni, Spezi porta l’incommensurabile bagaglio di esperienza, dati, testimonianze e ipotesi, coinvolgendoci fin da subito negli eventi reali legati agli orrori. Sottolineo reali, poiché il lettore che non conosce bene il caso, avrà la tendenza a pensare che in alcuni momenti si sia calcata la mano sulla fiction. Cosa fatta da Thomas Harris, ricalcando l’ispettore Rinaldo Pazzi di Hannibal sulla sagoma di Ruggero Perugini, l’uomo delle Forze dell’ordine che fornì la prova più simbolica – anzi, artistica – per inchiodare uno dei compagni di merende: «Il Vampa» Piero Pacciani.
Estremamente suggestive le prime pagine, degne di un horror folk-gotico. La regista Cinzia TH Torrini è in macchina, avvolta dall’oscurità e dal silenzio della campagna toscana. La strada è deserta e sinistre visioni l’affliggono. Scenario che da qualche tempo spaventa molto di più di una pellicola dell’orrore. Punta verso la casa di Mario Spezi: la Torrini ha in mente un film sull’argomento e il modo migliore per prendere confidenza con la materia è parlarne con chi l’ha vissuta e ci convive tutti i giorni. Da qui il dialogo tra il giornalista e la cineasta diventa un viaggio-testimonianza sugli sconcertanti delitti.
Tutto – ma questo lo si scoprirà solo dopo e nella maniera più incredibile – inizia il 21 agosto 1968, quando Antonio Lo Bianco e Barbara Locci – rispettivamente di 29 e 32 anni – vengono uccisi a colpi di pistola nella macchina in cui si erano apparati nel cimitero di Signa. Stefano Mele – marito della donna uccisa – viene subito arrestato e giudicato colpevole. Eppure qualcosa non torna: nella macchina degli amanti c’è il figlio di Stefano e Barbara, Natalino, il quale verrà trovato ad alcuni chilometri dalla macchina, mentre suona a un campanello di una abitazione. Nessuno indaga ulteriormente e le zone d’ombra rimangono insondate.
Passa qualche anno: il Mostro di Firenze ha gettato panico e sconcerto tra le colline del capoluogo toscano. Arriva in commissariato una lettera anonima (che poi sparirà dalle prove): c’è scritto di controllare i bossoli del caso di omicidio avvenuto nel 1968. Il controllo avviene e il colpo è forte: l’arma che ha ucciso la coppia Lo Bianco-Locci è una Beretta calibro 22 Long Rifle con bossoli Winchester marcati lettera H sul fondo. È la stessa usata dal killer delle coppie.
Durante la lettura, colpiscono numerosi aspetti: l’Italia “impreparata” nel fare i conti con un Mostro di tale portata, l’isteria dilagante e la caccia al colpevole, le possibilità esoteriche, innumerevoli lettere e chiamate a una stampa sempre a stretto contatto con le Forze dell’ordine, mitomani e bounty killers, la mediaticità e la portata mondiale del caso.
Calato ormai nel delirio di sangue, Spezi riesce a rimanere lucido. Il Mostro uccide nelle notti di sabato d’estate, quelle senza luna. Motivi occulti? No: sono le notti con meno luce, con meno possibilità di essere identificato. Ha ucciso anche di giovedì, ma il giorno dopo era sciopero dei mezzi: come se dopo i delitti avesse bisogno di un giorno libero, di una pausa, del silenzio. Le prime coppie uscivano da discoteche: l’assassino è di giovane età? Un profondo senso di insabbiamento e depistaggio ci attanaglia.
Colpevole di atti spregevoli, Pacciani – assolto in Appello – è però lontano dal profilo del Mostro (idem Vanni & Co.), soprattutto dall’identikit stilato dai mindhunter di Quantico: impotente, solitario, una firma ben precisa (lo spostamento della donna dalla macchina, il taglio del seno e l’escissione del pube), giovane e fisicamente molto alto (per vedere nel camper dei turisti tedeschi doveva essere alto almeno uno e ottanta): non esattamente “Il Vampa”, incarcerato con prove a dir poco sommarie.
Spezi riesce addirittura a registrare una confessione delle Forze dell’ordine in cui si confessa che Pacciani è un capro espiatorio e tutto è stato montato ad arte. Convinto di aver fatto il colpo, il giornalista spedisce la registrazione alle emittenti nazionali… ma nessuna risponde! E cosa pensare delle deposizioni del piccolo Natalino Mele? Pressato dalle autorità, solo in seguito confesserà: insieme al padre, attorno alla macchina c’erano altre persone. Gli era stato esplicitamente imposto di non dover ricordare nulla.
Come non citare poi le vicende di Francesco Ferri, presidente della Corte d’Appello, autore di Il caso Pacciani: storia di una colonna infame, altrettanto irreperibile pamphlet in cui spiega come contro “Il Vampa” sia stato montato un processo farsa?
Come in un grande romanzo non mancano i comprimari d’eccezione: il dottor Francesco Introna e la preziosa perizia entomologica, il super poliziotto Pier Luigi Vigna, Canessa, Giuttari, Silvia della Monica, Perugini. Abbiamo grandi scene, come l’incontro tra Spezi e Stefano Mele nella casa di riposo Ronco all’Adige e la cena con la scrittrice belga Ethel, in cui si parla per la prima volta – insieme a un anonimo pezzo grosso dei Carabinieri – dei fatti del Mostro come delitti di potere. Non mancano i colpi di scena – vedi l’arresto di Spezi – e lo sconvolgente finale in cui appare Carlo (nome inventato), ovvero – secondo gli autori – il Mostro di Firenze.
Nelle quasi quattrocento pagine del libro c’è questo e molto altro: Spezi e Preston ci portano nel gorgo oscuro dei fatti, immergendoci completamente in quegli anni, in quel clima fosco, nei drammi indicibili. E non possono non passare inosservati alcuni dettagli riguardo l’opera: a differenza dell’edizione americana chiamata The Monster of Florence, in Dolci colline di sangue mancano gli sviluppi dell’inchiesta Calamandrei-Perugia, quelli sull’arresto di Spezi, con lo spaventato Preston che scappa dall’Italia… ma soprattutto manca la vera identità di Carlo, presente invece nel romanzo americano.
Come presagito con amara ironia da Spezi stesso, il giornalista è morto due anni fa senza aver visto la parola fine sulla vicenda del Mostro. Con questo articolo non chiediamo certo le risposte al caso, ma almeno alle case editrici che hanno pubblicato il romanzo –Sonzogno e poi Rizzoli – di riportalo in libreria a cinquant’anni dallo scoppio di uno dei casi più agghiaccianti del secondo dopoguerra.
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