Visioni impossibili
Su “Troppa grazia” di Gianni Zanasi e sulle logiche della distribuzione
di Francesco Vannutelli / 7 dicembre 2018
Selezionato come film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto anche il Label Europa Cinemas, Troppa grazia di Gianni Zanasi conferma una doppia tendenza del cinema italiano che riesce a spingersi, allo stesso tempo, verso l’innovazione e l’autodistruzione.
In una Tuscia da incanto, Alba Rohrwacher interpreta Lucia, una donna sola alle prese con una figlia preadolescente, un compagno traditore e un lavoro da geometra da inventare ogni giorno. Quando finalmente le avviene assegnato l’importante incarico dei rilievi catastali che porteranno alla costruzione di un’importante opera pubblica, Lucia deve confrontarsi con una giovane donna apparsa dal nulla che continua a ripeterle: «Va dagli uomini, ferma il cantiere, dì loro di costruire una chiesa dove ti sono apparsa». Unica a vederla e a sentirla, Lucia si trova sospesa tra pazzia e religione.
Dicevamo che Troppa grazia di Gianni Zanasi conferma la doppia tendenza del cinema italiano verso l’innovazione e l’autodistruzione. Partiamo dall’innovazione. Dopo un’emorragia di commedie tutte uguali basate sui sentimenti e su dicotomie viste e riviste, in Italia sembriamo aver capito che si può far sorridere il pubblico anche con qualcosa di più originale. Troppa grazia si infila in un filone eterogeneo che mette insieme il successo colossale di Perfetti sconosciuti ed episodi artisticamente e commercialmente meno riusciti come Io sono tempesta. Sono film che hanno avuto la capacità di rinnovare il genere, da un lato, e di provare a introdurre temi nuovi e più attuali senza eccessi di paternalismo, dall’altro. Hanno dimostrato, in sostanza, che si può – ancora – fare commedia senza nord contro sud, senza donne alla ricerca di uomini, senza imbarazzanti confronti centro/periferia, poveri/ricchi, borghese/coatto (tipo Come un gatto in tangenziale).
Zanasi, che è un regista coraggioso e poco incline a seguire le direttive del mercato (lo aveva dimostrato anche con il film precedente, La felicità è un sistema complesso, meno riuscito ma comunque interessante), sceglie un argomento delicato come la religione e la spiritualità per parlare di lavoro, di famiglia e di società.
Come di consueto nel suo cinema, gli attori hanno la libertà per esprimersi al meglio e porsi al centro del progetto. A parte l’ennesima conferma di Alba Rohrwacher, Elio Germano si accomoda in seconda fila riuscendo come sempre a dare del suo meglio, così come il fedelissimo di Zanasi Giuseppe Battiston.
La tendenza autodistruttiva del cinema italiano, invece, non riguarda Troppa grazia, ma le logiche, se si possono chiamare così, distributive che soffocano quel poco di interessante che viene ancora prodotto in un oceano di uscite sovrapposte. Tra novembre e dicembre sono usciti e usciranno nelle sale una serie di proposte d’autore – più o meno – che si contendono il sempre più esiguo pubblico in sala. Zanasi si contende l’attenzione con Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, Ride, l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea, Santiago, Italia di Nanni Moretti, Capri Revolution di Mario Martone, e con titoli più puramente commerciali come il ritorno di Pieraccioni. Il tutto, tralasciando la concorrenza internazionale. Qual è il senso di mettere uno contro l’altro film che si rivolgono allo stesso pubblico ideale? Non sembra rispondere a nessun tipo di logica, né artistica né commerciale. I numeri del mercato sono sempre più scoraggianti e in tutta questa confusione titoli interessanti, coraggiosi, in qualche maniera anche utili, finiscono per scivolare via dall’attenzione dello spettatore e da ogni tipo di panorama artistico o culturale.
(Troppa grazia, di Gianni Zanasi, 2018, commedia, 110’)
LA CRITICA
Gianni Zanasi è uno dei registi più interessanti e originali per il modo di raccontare il mondo del lavoro in Italia. Con Troppa grazia lo conferma ancora una volta.
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