La fondazione nel sangue
Su "Il primo re" di Matteo Rovere
di Francesco Vannutelli / 8 febbraio 2019
Ci sono due modi per parlare di Il primo re, film sulla nascita di Roma interpretato da Alessandro Borghi e Alessio Lapice. Il primo, e più diffuso, si sofferma sulla produzione per costruire un discorso a partire dalle differenze. Il secondo, a cui ci si dedica meno, mette al centro il film. Il ritorno alla regia di Matteo Rovere, già molto apprezzato per Veloce come il vento e come produttore di tante delle cose migliori viste in Italia di recente, è stato ampiamente anticipato. L’ambizione del progetto era chiara nella sua enormità sin dall’annuncio. L’idea di realizzare un film epico in Italia, di battaglie ed effetti speciali, sembrava temeraria, per non dire folle.
Sarà per questa attesa che univa speranza e timore che tutti i commenti sul film finiscono per sottolineare come il film sia “diverso”. «Non sembra un film italiano», si legge in giro. Vuole essere un complimento, a rimarcare il livello di produzione al di sopra – o al di fuori – degli standard nazionali, ma diventa paradossale osservando il percorso e le intenzioni di Rovere e della sua squadra.
Tutto il cast tecnico di Il primo re è italiano, dalla fotografia di Daniele Ciprì agli effetti speciali. Rovere voleva dimostrare che in Italia ci sono delle eccellenze in grado di fare cinema diverso. Del resto, era quello che aveva già fatto con Veloce come il vento e con i film di Smetto quando voglio. Il cinema italiano si è talmente appiattito sulle due direzioni dell’autorialità e della commedia da trascurare le infinite sfumature. Negli ultimi anni le cose sono cambiate e stanno continuando a cambiare. Basti pensare a Lo chiamavano Jeeg Robot o alla tante, troppe, produzioni criminali sparse tra tv e cinema. C’è una riscoperta del genere e c’è, soprattutto, il coraggio di provare cose diverse.
Il primo re non è un’anomalia isolata, ma la tappa di un percorso che Rovere e altre personalità stanno portando avanti. Ci sono tante idee che si muovono in direzioni nuove per tornare a un coraggio perduto del cinema italiano.
Il primo re cerca di percorrere una strada inedita, ed è ciò di cui bisogna parlare, della sostanza del film. La leggenda di Romolo e Remo si trasforma in un racconto antiepico delle origini di Roma. Non c’è divino, non c’è mito: ci sono solo gli uomini e la natura. Romolo e Remo sono due pastori travolti dalla piena del Tevere e presi prigionieri dai soldati della città di Alba. Riescono a scappare dopo essere stati costretti a battersi tra di loro e coinvolgono nella loro fuga gli altri prigionieri e una vestale, sacerdotessa che custodisce il fuoco, unico dio tangibile. Mentre scappano per i boschi, inseguiti dai soldati e con Romolo ferito, Remo diventa guida del gruppo e si autoproclama re.
Rovere paga due tributi evidenti con il suo film. Il primo è a Revenant di Alejandro Gonzalez Iñarritu, il secondo, più sorprendente, al cinema di Mel Gibson regista. Come per il film di Iñarritu, Il primo re è stato girato in condizioni estreme, con gli attori che hanno vissuto nei boschi senza lavarsi per immergersi nella parte. Il rapporto di sintesi con la natura si apre in tutta la sua violenza brutale. Non c’è una visione bucolica, lo chiarisce la piena iniziale del Tevere che strappa i due fratelli dalla terra e li spinge tra rami e rocce. In un mondo poco meno che primitivo, gli elementi sono sovrani. Il fuoco è temuto ma necessario, l’acqua è benedizione quando è pioggia, condanna quando è fiume.
Dalla simbiosi con una natura spietata nasce la violenza tra gli uomini. Animata da due elementi fondamentali, l’individualismo e il tribalismo, la violenza è il cemento della società. Ognuno è solo e opposto, pronto però a rinchiudersi in un nucleo in grado di proteggerlo, che sia la famiglia o un accenno di società. Il Lazio pre-Roma di Rovere sembra assomigliare allo stato di natura della filosofia giusnaturalista: senza autorità costituita prevale il più forte. Finché è più forte.
Per rappresentare questo mondo violento, Rovere attinge a piene mani dall’estetica di Mel Gibson (The Passion, Apocalypto e anche Hacksaw Ridge), regista controverso ma senz’altro capace di restituire il senso fisico del dolore. È da Gibson che prende anche l’idea più estrema del film: la lingua. Tutto Il primo re è recitato in un protolatino documentato e rigoroso, in nome di un realismo forse eccessivo.
Ed è qui il difetto del progetto di Rovere. La volontà di arrivare a una produzione colossale lo ha portato a trascurare il film stesso. Lo sforzo produttivo non viene accompagnato da personaggi che lascino davvero il segno. Sono solo accennati nei loro tratti radicali (Remo/Borghi, in particolare) che finiscono presto per essere esasperati. Così lo sviluppo della trama, con la fuga nella foresta diventa in fretta semplice pretesto (non c’è traccia di inseguitori) e dopo una prima parte tesa, silenziosa, inquietante, nella seconda Il primo re sembra andare avanti per inerzia.
La grandezza della produzione sembra aver catalizzato tutti gli sforzi. È un film destinato a fare la storia del cinema italiano, ma sembra comunque mancare di qualcosa.
(Il primo re, di Matteo Rovere, storico, 2019, 127’)
LA CRITICA
Una produzione senza precedenti, enorme e ambiziosa. Matteo Rovere si conferma la personalità più innovativa del cinema italiano, ma Il primo re finisce per essere soffocato dalla sua stessa grandezza.
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