D’Annunzio, Fedez e la nascita dell’Artistagram
La musica ai tempi delle Instagram story
di Giulio Armeni / 15 febbraio 2019
Qualche anno fa su internet girava un diabolico quiz che ti snocciolava diverse frasi del tipo:
«[…] e noi che cerchiamo la pace a costo di farvi la guerra…»
Domandandoti se fosse di a) Alessandro Di Battista, b) Federico Moccia, c) Un giovane Che Guevara. Un gioco perturbante, nel suo mettere a nudo la tua incapacità, più o meno giustificata, di giudicare il contenuto di un messaggio a prescindere dal suo portatore. (E se non ci credete, aspettate la soluzione al termine di quest’articolo).
Ebbene, spesso quando mi spulcio il panorama musicale rappettaro-trappettaro sento tornare il fantasma di quel quiz. La procedura è questa:
1) Un mio amico mi esorta ad ascoltare un pezzo, nascondendo col dito la barra delle visualizzazioni Youtube.
2) Io gli domando ridendo chi sia quel papero analfabeta boro sbiascicante.
3) Lui toglie il dito a mostrare le 300.000 views, rivelandomi che è il volto emergente della trap romana.
4) Io mi ricompongo e sostengo che sia un cantore del disagio post-moderno a cui dobbiamo un silenzioso ascolto.
È utopico, nel 2019, voler giudicare la qualità di un’opera d’arte (?) prescindendo dal suo contesto, inseguire la bellezza sganciata da ogni contingenza, sorseggiando tè sul divano macchiato di Oscar Wilde. È utopico soprattutto perché il carisma dell’artista – da sempre importante nell’ammantare l’opera – sembra destinato a diventare così preponderante da schiacciarla, l’opera. Grazie a Instagram – e soprattutto alle storie, che seguono il flusso della vita – il rapper di turno ha la possibilità di dare continue pennellate al proprio universo estetico, non delegando per forza il compito alle sole sue canzoni.
Alcuni esempi: capita spesso di vedere Noyz Narcos, rapper vecchia scuola – che, per inciso, ha saputo creare il suo immaginario ben prima di comprarsi uno smartphone – postare storie di tranci di manzo sulla griglia o teste di gamberoni appena succhiate, in linea con un’estetica horror-pulp da sempre presente nei suoi pezzi. Per lui parlano, anzi rappano, le sue Instagram story: nella prima potete vedere il suo dito solleticare il pancino d’un’aragosta, nella seconda una carrellata su alcuni nuovi elementi della sua collezione.
Poi c’è Fedez. Le storie di Fedez ritraggono il più delle volte il figlio Leone sul cavallo a dondolo, come a corroborare in eterno il suo singolo “Prima d’ogni cosa”, con una violenza che, a mio parere, m’impedisce di fare mia la canzone, ma la lega inscindibilmente alla sua esperienza personale, a cui io devo in qualche modo soccombere in quanto suo fan o ribellarmi in quanto hater. Esemplare che, per lanciare il suddetto singolo, abbia deciso di metterci la faccia: se non la sua, quella che più gli assomiglia. La foto postata da Fedez ti dice: non è la storia universale d’un qualsiasi bambino, quella della canzone; che tu l’accetti o no, è la storia di mio figlio, Leone Ferragnez, aka: il bimbo dei Nirvana dopo aver raggiunto la banconota.
Ancor più in là, proiettata nell’avanguardia pura, la Dark Polo Gang, in cui le storie di Instagram – intessute di slang, swag, carisma e merchandising – sono inseparabili dalle loro canzoni, e sono un continuo, ansioso intervento di manutenzione d’un immaginario in realtà solido quanto la casetta di paglia dei tre porcellini. Potete vedere come nella prima storia il frontman della gang, Tony Effe, concili taglio gangsteristico (taglio della gola) e zuccheroso in un’unica inquadratura. Nella seconda storia trovate invece cerchiati in rosso i tre emoji che definiscono questo immaginario della DPG: il cuore viola (colore degli sciroppi di codeina, droga di riferimento per i trappers), il fiocco di neve (il freddo delle collane, la freschezza del loro stile, la strizzata d’occhio alla neve, vedi iceberg di cocaina) e la navicella UFO (quegli alieni a cui spesso i tre trappers si paragonano).
C’è infine l’apoteosi dell’emergente Gallagher (interprete della Drill, sottogenere dark della Trap) in cui le canzoni si eclissano del tutto, lasciando solo le storie e, come ossi di seppia sulla spiaggia, dei denti d’oro. Così nella prima immagine potete vedere uno swaggante Gallagher in accappatoio “flexare” (alla lettera, “mostrare i muscoli”) il suo ragno intarsiato di pietre preziose, e nella seconda annunciare, poco tempo dopo, il suo nuovo singolo; ed è una tipica strategia commerciale d’un artista instagrammer, rendere il proprio pezzo o album associabile a un emoji, in modo da farlo spammare ai suoi fan e aumentare la visibilità dei post, e non è raro che un titolo venga scelto a tavolino in base alla sua “emojibilità”.
«Il padre gli aveva dato questa massima fondamentale: bisogna fare la propria vita come un’opera d’arte». Così Gabriele D’Annunzio, nel primo capitolo del suo romanzo Il Piacere, introduce quel trap-boy – piccolo bastardo, piccolo spezzacuori – che era il protagonista Andrea Sperelli. D’Annunzio, che inscenò la propria morte per caduta da cavallo all’uscita della sua prima raccolta di poesie; anticipatore di quel Gallagher che, col suo primo album prossimo a uscire, decide improvvisamente di minacciare di morte mezza scena rap italiana. D’Annunzio in versione Superuomo, che potete vedere in foto, come il Gallagher versione Tuberuomo che di fatto nasconde le sua nudità dietro un emoji, e sostituisce al suo umano, troppo umano pene una superomistica proboscide di pixel.
E ancora D’Annunzio, che come Tony Effe coniò nuove parole – tramezzino per il vate, bufu per il trapper – e che come Fedez intrecciò amore e autopromozione – Eleonora Duse / Chiara Ferragni – è stato il pioniere di quell’estetismo che solo nel 2019 può trovare i suoi veri eredi: gli artisti prossimi venturi che faranno della propria vita una storia di Instagram, e saranno, in questo senso, opere d’arte ambulanti.
Le canzoni, in questo futuro, saranno un trascurabile corredo? Saranno materiale d’archivio a disposizione di chi, per pura curiosità filologica, vorrà integrare la biografia dell’artista, anzi dell’Artistagram? Quest’Artistagram preferirà sempre più affidare la resa del proprio immaginario a mezzi più immediati e spendibili, come gli emoji o il merchandising? “Prima d’ogni cosa” inaugura un nuovo genere autoriale in cui l’opera – prima d’ogni cosa, prima d’ogni cosa – è solo una stampella della vita? Anzi, non della vita, ma di quella reinvenzione della vita che è Instagram? Chi l’ha scritta quella frase a inizio-articolo, Di Battista, Moccia o un giovane Che Guevara? La risposta è al min 2.21:
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