1969: la storia indifferente di Achille Lauro

Il quinto album dell'artista romano

di / 26 aprile 2019

Copertina di 1969 di Achille Lauro su Flanerí

Di Sanremo 2019 rimangono due cose: le polemiche imbevute di razzismo a proposito della presunta italianità di Mahmood, reo di avere un padre egiziano, e l’esposizione al grande pubblico di Achille Lauro. I tatuaggi in faccia che si spostano da Instagram a Rai 1 non sono passati inosservati. Un artista con alle spalle una carriera da trapper che arriva sul palco dell’Ariston con un pezzo rock, “Rolls Royce”, e che in questo aprile esce con il suo quinto album, 1969.

Lauro si è prestato benissimo al ruolo di rock star, aiutato anche da Morgan – da sempre Bowie dipendente –, nel ruolo di personaggio di rottura nei confronti del conformismo imperante del festival che, nonostante i tentativi genuini di Baglioni di andare contro tendenza, continua a vivere di certe soluzioni stucchevoli e retoriche. C’era una contrapposizione implicita tra le facce da bravi ragazzi di  Ultimo e il Volo e quella da criminale dei social di Lauro, diversa anche da quella ripulita di Mahmood. Una soluzione narrativa che ha dato i suoi frutti, quantomeno in termini di share televisivo.

Lauro, con un pezzo che vive di un riff alla chitarra alla “1979” degli Smashing Pumpkins cantata da un ex trapper Vasco Rossi – ma che di fondo si rifà anche a quell’indolenza di un gruppo mancato, il Managment del dolore post-operatorio -, è riuscito a catturare l’attenzione, far discutere, far parlare di sé. L’Italia si era divisa di nuovo in due: una scelta che sapeva di bagarre sportiva: Achille sì, Achille no.

1969, quindi, era atteso con la curiosità di cosa sarebbe stato dell’autore di Ragazzi madre. Cosa avrebbe comportato l’apertura a un nuovo pubblico, la necessità di andare a colpire nuove fette di mercato. Cosa sarebbe stato del passato di uno dei trapper italiani più importanti.

Si avvertiva la pericolosità che viveva dietro queste premesse. Quest’ultimo lavoro è, in definitiva, una creatura amorfa, senza identità. Poche idee e confuse. Pochi spunti. Un’enorme camera in disordine dove viene riprodotto un guaito stonato che canta di macchine e di come sommariamente vanno le cose. Lauro non è riuscito a prendere le sue qualità – il talento e l’esperienza – e a gestire la mole di input che gli hanno ispirato l’album. 1969 è un cut up di musica e parole messe alla rinfusa.

Rolls Royce” è un pezzo che funziona da traino, ma quello che si porta dietro è veramente poco significativo. “C’est la vie”, l’altro singolo, somiglia al brano d’esordio di un concorrente di Amici, “1969” è la versione non rock di Rolls Royce: per il resto, i brani sembrano gli scarti di Auff!! dei già citati Managment a cui ogni tanto è stata aggiunta un po’ di trap.

Quello che era emerso a Sanremo non si concretizza in 1969. La rock star scrive un album soft rock smielato con qualche incursione di aggressività posticcia. Achille Lauro rimane solo quello con i tatuaggi a Sanremo che cantava “Rolls Royce”: l’ascolto di 1969 lascia indifferenti. Tra il prima e il dopo non cambia nulla.

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LA CRITICA

Dopo Sanremo era molta la curiosità per il nuovo lavoro di Achille Lauro: i risultati, però, sono scarsi e 1969 lascia del tutto indifferenti.

VOTO

4,5/10

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