Lessico selvaggio
A proposito di “Nel profondo” di Daisy Johnson
di Marco Miglionico / 22 ottobre 2019
Grazie a Nel Profondo (Fazi, 2019), restituito in Italia nella pregevole traduzione di Stefano Tummolini, la talentuosa scrittrice Daisy Johnson è riuscita a soli ventisette anni a entrare nella shortlist del Man Booker Prize.
E però il merito di Johnson non si arresta a simili riconoscimenti, seppure importanti, ma viene incontro all’istinto più umano, cioè quello di inventare una storia, una potente storia di tutti, in cui ognuno può vedersi rappresentato. Si è detto di questo romanzo che emana mitologia, accogliendo in questa definizione il ruolo primario che un racconto deve avere e cioè, appunto, essere di e arrivare a tutti.
Di mitologico c’è certamente l’aver riscritto un mito di Edipo al contrario in cui Tiresia si chiama Fiona, un travestito, affamato di vita e votato alla solitudine, che semina sconforto e squilibrio laddove giunge. Questo accostamento ricorda i versi raccolti in Dolore minimo (Interlinea, 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto: «Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo. / Il dono dell’indovino Tiresia: / mutare sesso una volta nella vita», seppure qui il dono ha la consistenza della condanna.
C’è una storia di famiglie che vivono «oltre il ceppo nero»: questo il titolo della prima parte del romanzo, questo pure il luogo dove va chi non vuole essere trovato da nessuno, il là-bas selvaggio. Nel profondo, infatti, è una storia di luoghi che ritornano nel tempo, caratterizzati da incrostature, ruggini, melma, una storia di rincorse, di ricerche e ricordi, ma è soprattutto una storia di linguaggi, di strategie e tentativi di comunicazione.
Gretel, la protagonista, l’unica che narra in prima persona la sua porzione di storia e che ricostruisce, immaginandola o per reminiscenza, quella degli altri, è una lessicografa che lavora per l’Oxford English Dictionary e si nutre, perciò, di parole, per dare ad altre parole ancora nuovi significati. Da adolescente, non riusciva a trattenerle neppure nel sonno, sempre agitato e pieno di monconi di frasi. Avendo vissuto i suoi primi anni con la madre su una chiatta lungo il fiume, dove non arriva la civiltà, Gretel ha imparato che non sempre ogni cosa ha una parola adatta per essere indicata, neppure sé stessa, che la madre spesso chiama El oppure Hansel, senza darle spiegazione alcuna.
Per il loro vivere a parte, Gretel e la madre, Sarah, selvatica e inferocita come se fosse scampata a una distruzione, hanno inventato un lessico tutto loro, comprensibile al solo e ristretto circuito della loro relazione, spesso morbosa, malata. Un lessico fatto di parole inventate, incomprensibili, di parolacce, di volgarità, di fraintendimenti inconciliabili: «Guarda che fine abbiamo fatto. Siamo l’ombra di noi stesse, due miserabili votate all’autodistruzione o a massacrarsi a vicenda, rinchiuse in un cottage troppo piccolo per viverci insieme».
La malattia è un altro aspetto del romanzo: l’Alzheimer sottrarrà al cervello di Sarah la possibilità di trovare le parole più giuste per indicare le cose. La condizione inselvaggisce ovviamente la donna, dietro la quale Gretel, cresciuta da sola per il resto della sua adolescenza, fatica a rimanere. Il conflitto tra le due donne è impari, perché un fattore di disequilibrio è dato proprio dall’incedere imprevedibile e selvaggio di quella malattia, che talvolta riunisce Sarah e Gretel in sussulti di tenerezza, talvolta le oppone come due fiere che si contendono un brano di carne.
Il disequilibrio è soprattutto tradotto nei loro dialoghi, anche quando Sarah è ormai un’erma muta, anche quando non può restituire altro che il silenzio, dando a esso, per Gretel, un nuovo significato: «Vorrei – mentre sto lì seduta, aggrappata al tuo corpo – dirti qualcosa. Mettere un punto a questa storia. Finire quello che abbiamo iniziato. Resto lì con te un sacco di tempo, eppure non trovo le parole».
Nel profondo non è un libro da leggere, ma anche da esplorare, da sondare, di cui arricchirsi per apprendere una lezione oggi necessaria: siamo quello che di noi raccontiamo, le nostre parole prima delle azioni.
(Nel profondo, Daisy Johnson, Fazi, 2019, trad. di Stefano Tummolini, 276 pp., euro 18, articolo di Marco Miglionico)
LA CRITICA
Un romanzo che scava, appunto, nel profondo dei suoi protagonisti, indagandone soprattutto il modo di esprimersi e le parole, che Johnson suggerisce di dover curare come figli propri.
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