L’amore per essere altro
A proposito di “Orlando” di Virginia Woolf
di Martina Pietropaoli / 28 ottobre 2019
All’una di notte del 17 marzo 1928 Virginia Woolf finisce di scrivere Orlando. «Ho scritto questo libro più velocemente degli altri: ed è tutto uno scherzo; allegro e di rapida lettura, credo; una vacanza per lo scrittore». La vicenda di Orlando attraversa quattro secoli e finisce giovedì 11 ottobre 1928, dopo aver intrecciato molte storie in un unico romanzo. Tanto breve il tempo della scrittura, quanto capace di dilatarsi il mondo della coscienza protagonista.
Le scene e le azioni sono tessute con l’assertività di una macchina da cucire che usa il filo della memoria per imbastire scampoli di geografia, botanica, entomologia, storia del costume. Dai fiori alla «spina dorsale della terra», i dettagli, le differenze e le peculiarità del mondo sono offerti con l’arguzia di un collezionista inglese, denunciando il fallimento del naturalista quando la vita non dev’essere solo descritta ma raccontata: «Una cosa è il verde in natura, un’altra cosa il verde in letteratura. Si direbbe che fra natura e letteratura regni una naturale antipatia; mettetele insieme e si faranno a pezzi». Titolo originale Orlando: A Biography, il duello tra biografia e vita è aperto.
Lui, Orlando, a sedici anni giocherella vigoroso ma annoiato con un Moro appeso al soffitto. Omonimia col furioso dell’Ariosto, quel pupazzo rappresenta un mondo patriarcale che si consolida, con costumi moderni, nelle guerre dell’Inghilterra di metà Cinquecento. Lui è troppo giovane per partire e si nasconde tra le soffitte, gli arazzi e i pavoni della sua dimora nobiliare.
È un romanzo a colori ma la dimensione visiva non soffoca tutti gli altri sensi: udito, olfatto e tatto guidano l’iniziazione del protagonista tra le illusioni e le disillusioni dell’amore: «E così, salendo per la scala a chiocciola sino al suo cervello – che era vasto – tutte quelle visioni, e i rumori del giardino, il martello che batte, l’ascia che abbatte, creavano quel tumulto e quel disordine di passioni e sentimenti che ogni buon biografo detesta». Le note della scrittrice-biografa si succedono nel corso del racconto accordando veridicità delle fonti e accuratezza dell’invenzione. Dichiarano una commistione inscindibile tra vita e racconto e hanno il pregio (esclamando!) di aggiungere un sentimento a tutta la vicenda: l’ironia, come lente più autentica della letteratura. L’ironia è la vibrazione comune alla commedia e alla tragedia umana che permette di superare ogni antinomia?
Con una corona di foglie di fragola in capo, Orlando, ormai Duca trentenne avventuratosi tra i tumulti del mare e dei popoli, si addormenta in un sonno che sembra senza rimedio, per risvegliarsi in un corpo di donna e restarvi tutta la vita. La sua anima è la stessa e inizia un disciplinato esercizio tra le conseguenze di questa metamorfosi. Le donne non hanno caratteri ma «sono grazie che si possono ottenere». Lei, Orlando, attraverso i condizionamenti sociali educa i sentimenti, approfittando della doppia identificazione che le dà la libertà di non essere il suo corpo ma di averlo. In quello scarto si ricostruisce come coscienza desiderante capace di dare nome alle cose.
Si susseguono i sussurri dei gentiluomini: «le donne non sono altro che bambine cresciute… Un uomo di buonsenso si trastulla con loro». E invece Virginia continua ad esclamare! Con la grazia di chi protegge i vuoti non raccontabili della vita, perché sazi di poesia. E con la concitazione di chi pretende di comprendere cosa c’entrano l’ordine e il tumulto dell’animo con l’ordine e il tumulto della società. «A un’immagine seguiva subito un’altra immagine […] ogni cosa solida, insomma, cui ormeggiare il suo cuore alla deriva».
Il non detto è più eloquente del dicibile nel flusso di coscienza mediato dai luoghi e dagli oggetti. Il romanzo corre a cavallo di un’apparizione ninfale dopo l’altra, tanto precise quanto baluginanti, e A Vita Sackville-West è dedicato. Si dice che Vita, amica e amante della scrittrice, donò un ricciolo d’oro pallido e un biglietto d’amore del Seicento a Virginia, che in un diario dichiara che in Orlando «l’equilibrio tra verità e fantasia dev’essere accurato. È basato su Vita, Violet Trefusis, Lord Lascelles, Knole».
«Mi trovo al centro della più grossa infatuazione mai capitata»: Orlando, Vita, la vita. Virginia si perde e sta a noi lettori di oggi liberarla dal mito della sua biografia, che per la possibilità di scrivere, per una donna, ha tracciato un doloroso grido. Il profilo perlaceo delle donne invisibili (o troppo visibili nella loro inessenzialità di feticcio) viene rifuso nel calco di un protagonista integro grazie alla sua ambiguità. Woolf assicura la capacità di espandersi al percorso dell’emancipazione della creatività femminile, ancora lungo: lungo quanto la vera lunghezza di una vita umana che, attraverso Orlando, non si chiude nella parabola della vita di un individuo, nel suo genere e nel suo tempo.
In una Londra avvolta da una grande nube (di tenebra, dubbio, confusione), siamo alla fine, improvvisamente nel ventesimo secolo. L’umidità trasforma furtivamente il carattere dell’Inghilterra. Il mito della metamorfosi, custodito nel tema dell’androgino, si accorda con le vicende quotidiane di un’Orlando futura, matura e – sempre – innamorata, che non rinuncia a scrivere – mai – quando è uomo e quando è donna.
I viaggi veloci nel tempo sono possibili solo accordando il sentire all’invisibilità del mondo, attraverso l’inventario dell’esistente. Il dono dell’ironia della letteratura non è per sempre ma si rinnova di volta in volta con la sospensione del tempo, esercizio dello scrittore e del lettore che permette di avere una vita più che essere la propria vita.
Ciò che vale conoscere della sua vita Virginia l’ha detto in questo capolavoro, che ci ammonisce con forza: il carattere transessuale e transgenerazionale della poesia permette al lettore di trasecolare da un’epoca all’altra della propria esistenza e della propria civiltà. Le maschere del teatro, i costumi, il proprio corpo e i propri sensi permettono a Orlando di trapassare nell’altro da sé, incarnando l’ingiudicabile attraverso l’arte. L’amore per l’essere altro è la noce dura della letteratura. Vale nell’Inghilterra e nell’Europa del Novecento, in cerca di decolonizzazione. E vale oggi, quando la costruzione dell’alterità mette pericolosamente sul crinale gli umori individuali e collettivi.
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