Il potere come condanna del destino
Su "Il re" di David Michôd
di Francesco Vannutelli / 9 novembre 2019
Non è facile trovaremodi nuovi di trasportare al cinema i drammi di Shakespeare, ma Il re, arrivato su Netflix il primo novembre dopo la presentazione a Venezia, è riuscito a evitare alcune delle trappole più comuni dei film shakespeariani recenti. Negli ultimi trent’anni le strade seguite sono state sostanzialmente due: l’attualizzazione – vedi Romeo + Juliet di Baz Luhrmann – o la fedeltà adattata ai canoni del cinema contemporaneo – vedi il Macbeth di Justin Kurzel.
Quello che hanno fatto il regista David Michôd e il suo co-sceneggiatore Joel Edgerton non è stato semplicemente trasferire al cinema con Il re gli Enrico IV ed Enrico Vdi Shakespeare, quanto riscriverne da capo le premesse. Già l’idea di partire da un insieme di suggestioni di Shakespeare, più che da un singolo testo, ha lasciato agli autori maggiore libertà di creare e immaginare.
Il giovane Enrico, Hal nella vita di tutti i giorni, rifiuta il suo ruolo di principe e odia il padre, Enrico IV, despota sanguinario responsabile delle divisioni del Regno Unito (vago riferimento a Brexit?). Odia quello che il padre rappresenta, la sua natura guerrafondaia, a cui cerca di porre rimedio anche con sacrifici personali. Per questo sceglie la taverna e il vino, le feste e la compagnia di Falstaff, veterano di mille battaglie. Quando il padre e il fratello muoiono, Hal è chiamato al trono. Potrebbe e vorrebbe essere un sovrano differente, ma in breve verrà risucchiato dalle dinamiche del potere.
I due sceneggiatori mettono in chiaro dalle prime scene che la dissolutezza non è piacere, per Hal. Non viene mai mostrato in festa, ma solo nei postumi, mentre vomita, o stramazza sul letto. La sua vera natura è quella di sovrano, che si rivela un po’ alla volta dopo l’incoronazione.
Il re è una riflessione sul potere come vincolo e sulla chiamata innaturale ma irresistibile alla guerra e al conflitto. Il giovane Enrico V, animato dalle migliori intenzioni, si lascia trascinare verso il suo ruolo di sovrano conquistatore e spietato. Rifiutava il trono, e in poco tempo diventa come il padre. Forse è proprio la ricerca continua di una figura paterna in cui riconoscersi e da cui farsi guidare – Enrico IV prima, Falstaff e il consigliere poi – a farlo sbandare sulla strada del suo destino, e forse si emancipa alla fine, quando affida tutto alla richiesta di onestà alla sua giovane sposa.
David Michôd è riuscito a conciliare le riflessioni dei drammi storici shakespeariani con le esigenze di un cinema più spettacolare. Eccessivamente spezzato in due parti, Il reparte lentamente nel ritratto dei tormenti del giovane Enrico per poi accelerare sul campo di battaglia. Tra i pregi indiscutibili c’è la verosimiglianza degli scontri, parenti lontani di duelli coreografati o di trionfi scacchistici di tattica, ma più simili a zuffe faticose appesantite dalle armature. La battaglia di Azincourt – momento di svolta della Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra – viene restituita in tutta la sua asfissiante crudezza, con un debito evidente nei confronti della Battaglia dei bastardi del Trono di spade.
Timothée Chalamet guida il cast con un Enrico V fragile e tormentato, personaggio che sta diventando una specie di marchio di fabbrica dell’attore. Gli si muovono intorno Ben Mendelshon, Joel Edgerton, che si ritaglia il ruolo di Falstaff e i momenti più intensi, e in piccoli ruoli Robert Pattinson e Lily-Rose Depp.
(Il re, di David Michôd, 2019, storico, 140’)
LA CRITICA
Eccessivamente spezzato in due, Il re di David Michôd va oltre le premesse shakespeariane e agli errori comuni dei film tratti dal Bardo con una riflessione sul potere e il suo richiamo.
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