Favole politiche
Il panorama narrativo siciliano da Sciascia a Camilleri
di Priscilla Santoro / 13 novembre 2019
Perseguendo le tracce dell’evoluzione propria della forma favola, si scopre la natura carsica della critica sociale, la quale, sin dalle origini del genere, alimenta la struttura di molti racconti, al punto che, talora, si fa riferimento a una tipologia a sé stante, costituita dalle cosiddette favole politiche.
Infatti, pur non costituendo l’unico fattore distintivo della produzione favolistica, il monito di tipo sociale si articola in declinazioni assai variopinte, conformandosi di volta in volta alle norme linguistico-letterarie predominanti.
Tuttavia, una fisionomia specificamente socio-politica sembra caratterizzare una buona porzione della produzione favolistica novecentesca. Se infatti talune forme narrative possono essere adottate, in seguito alla loro originaria pubblicazione, anche come medium propagandistico mediante rielaborazioni in chiave ideologica (per cui si rimanda all’articolo Il confine della favola), altri racconti vengono intenzionalmente strutturati dai propri autori come favole politiche, e dunque quali allegorie sociali di più o meno ampia estensione, volte alla critica dello status quo. Non di rado, inoltre, l’impianto satirico è accompagnato dal recupero della tradizione esopica, per sua natura assai incline all’ammaestramento ironico e, persino, mordace.
A questo proposito, risulta interessante indagare uno tra gli scenari propri del panorama narrativo siciliano, ripercorrendo un’ideale linea diacronica che lega Le favole della dittatura (Bardi, 1950) di Leonardo Sciascia alle Favole del tramonto (Edizioni dell’Altana, 2000) di Andrea Camilleri, il cui esordio da favolista risale nondimeno al testo, recentemente ristampato da Mondadori, La Magaria (fiaba commissionata da una cooperativa di detenuti ed ex detenuti del San Vittore di Milano, in seguito musicata da Marco Betta e pubblicata sull’Unità del 18 dicembre 2005).
Favole della dittatura
Il solo titolo delle favole scritte da Sciascia ne indica con immediatezza iconica l’origine esopica; la raccolta, infatti, si apre con una citazione di “Il lupo e l’agnello” di Fedro («Superior stabat lupus», Favole, I 1, 2), la quale, oltre a rimarcare l’ascendenza classico-letteraria, sembrerebbe sancire una prospettiva incentrata sulla contrapposizione tra il superior e, conseguentemente, l’inferior.
I racconti, non indicati da titoli, si strutturano su una tale brevità testuale da assumere la forma di precetti aforismatici, come nel caso della quinta favola: «Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignuolo per tutta la notte tacque di paura».
I personaggi, animali con attitudine umana posti in interazione con altri animali e, in sporadici casi, con uomini che però non risultano mai i soli protagonisti della scena narrativa, riproducono allegoricamente le dinamiche tipiche del regime fascista, rimarcandone articolazioni ideologiche e meccanismi emotivi.
Il quadretto narrativo, infatti, non mira alla pur dialettica rappresentazione esistenziale degli uomini membri della società, o, più generalmente, dei fattori antropici inevitabilmente coinvolti nell’equilibrio della comunità, ma alla descrizione allegorica del contesto politico-sociale: sono infatti frequenti le allusioni a fatti coevi. Valga come esempio l’incipit del secondo racconto: «Le scimmie predicarono l’ordine nuovo, il regno della pace. E tra i primi entusiasti furono la tigre il gatto il nibbio. Poco a poco, tutti gli altri animali si convinsero e fu una fraterna agape vegetariana». E così anche l’esordio della ventiquattresima storia: «C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono».
Pertanto, la definizione di «favole politiche», in questo caso, designa un impianto non tanto volto alla raffigurazione polemica di personalità storicamente identificabili quanto soprattutto alla denuncia di più ampie e assai frequenti categorie dicotomiche che descrivono i rapporti tra classe dominante e classi subordinate – sebbene, in alcuni casi, non sia da escludere l’allusione a precisi personaggi storici: ad esempio Pasolini, che analizza molto lucidamente le Favole della dittatura in La libertà d’Italia del 9 marzo 1951 (successivamente confluita nel Portico della morte, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1988), intravede nell’«uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore» del venticinquesimo racconto le figure di Galeazzo Ciano o di Achille Starace.
Favole del tramonto
Peculiarità molto simili caratterizzano le Favole del tramonto (Edizioni dell’Altana, 2000), illustrate da Angelo Canevari, anticipate per piccola parte su Micromega nel 2003 con la precisazione d’autore «dieci favole politicamente scorrette», data la palese allusione polemica berlusconiana.
Come esplicitamente rivelato dall’autore, il titolo dell’opera costituisce una citazione alfieriana relativa all’influsso del cosiddetto «umor nero del tramonto», simbolo della disillusione predominante nell’impianto narrativo delle sue favole.
Effettivamente, ogni racconto sembra essere permeato da un disincanto morale che, lungi dall’esorcizzarsi nel graduale svolgimento narrativo, culmina anzi in un epilogo malinconico – molto raramente infatti l’epimitio conclusivo esprime una prospettiva ottimistica, benché l’autore non rinunci ad istanze pedagogiche. Poiché però il registro adottato risulta estremamente mordace, la risultante consta di un black humour spesso declinato in freddure epigrammatiche, relative anche in questo caso a dinamiche squisitamente sociali piuttosto che antropologiche oppure esistenziali.
Pur in un contesto di sostanziale affinità strutturale-tematica con le favole di Sciascia (l’implicita allegoria sociale, spesso anche oggetto di un rovesciamento parodico; i bersagli critici che pure concernono il potere della classe dirigente; la ripresa della tradizione esopica), la principale differenza che distingue i due corpora, oltre alla scelta dialettale perseguita da Camilleri, pertiene agli obiettivi polemici: essi, infatti, non additano figure sociali tipiche, di volta in volta identificabili con personaggi diversi, ma, al contrario, restringono molto frequentemente il punto di vista, attraverso dei riferimenti neppure troppo camuffati, come nella favola “Il Cavaliere e la mela”: «Quand’era picciliddro, e quindi non ancora Cavaliere, il futuro Cavaliere vide un compagnuccio che stava a mangiarsi una grossa mela. […] si accostò al compagnuccio, gli strappò la mela e la pigliò a morsi. […]. “Non sono stato io a rubare la mela”, ribatté il picciliddro continuando a dare morsi al frutto, “La colpa è tutta del mio compagno che se l’è lasciata rubare”».
Questo esempio mostra anche che molte delle Favole del tramonto condividono una struttura e un intreccio assai brevi, e che il protagonista dell’azione narrativa è più volte rappresentato, in chiave antifrastico-parodica, dal medesimo personaggio, Il Cavaliere, la cui descrizione allude piuttosto chiaramente allo scenario politico coevo, come in Il pelo, non il vizio: «In Italia ci fu un Cavaliere che, in pochi anni, accumulò una fortuna immensa. Un giorno alcuni magistrati cominciarono a interessarsi dei suoi affari. E cominciarono a piovergli addosso accuse di falso, corruzione, concussione, evasione fiscale e altro ancora. […] Nell’aldilà venne fatto trasìre in una càmmara disadorna. C’era un tavolino malandato darrè il quale, sopra una seggia di paglia, stava assittato un omino trasandato. “Tu sei il Cavaliere?”, spiò l’omino […]. “Io sono il Giudice Supremo”, disse a bassa voce l’omino. “E io la ricuso”, gridò pronto il Cavaliere che aveva perso tutto il pelo, la carne, le ossa, ma non il vizio».
In conclusione, è bene aggiungere che alcune di queste favole possono definirsi come delle contemporanee rielaborazioni in chiave politico-satirica di racconti tradizionali dalla manifesta origine esopiana, come ad esempio “Il Cavaliere e la Volpe”, che evoca la celeberrima “La Volpe e l’Uva”: «Un giorno il Cavaliere, nascosto, vide che la volpe voleva mangiarsi un grosso grappolo d’uva alta sopra un pergolato. […] A un tratto si fece persuasa che quel grappolo era, per lei, irraggiungibile. “Perché sto qui a sprecare energia?”, si domandò, “Oltretutto sicuramente quell’uva è troppo agra”. E se ne andò. Il Cavaliere, nel suo nascondiglio, immediatamente si convinse che quell’uva era buonissima e che la volpe aveva detto che era agra solo perché non era riuscita a prenderla. Così […] agguantò il grappolo e ne fece un solo boccone. S’attossicò. L’uva era veramente agra».
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