LE MANI PULITE DI NOSTRO PADRE
“Una volta ladro, sempre ladro”, l’esordio di Lorenzo Moretto
di Alessandro Chiappanuvoli / 10 dicembre 2019
Una volta ladro, sempre ladro di Lorenzo Moretto (minimum fax, 2019) è un romanzo utile, oltre che ben scritto e concepito; utile tre volte: per l’autore, per il lettore, per la società che lo accoglie. L’opera d’esordio di Moretto ha il merito di sapersi posizionare in un punto ideale da cui è possibile riflettere sulle angosce personali, intime, come pure su quelle sociali, legate a un periodo drammatico per l’Italia, tentando nell’impresa di ricucire uno strappo grande quasi trent’anni, che ha fatto di noi i cittadini che siamo e dell’Italia il Paese controverso e spaurito che oggi si trova a essere.
«Al centro della mia vita c’è l’arresto di mio padre», questo l’incipit. Siamo all’11 giugno 1994, gli anni di Tangentopoli e di Mani Pulite. Giovanni Moretto, commercialista e padre della voce narrante, è tratto in arresto con l’accusa di ricettazione finalizzata al traffico d’armi internazionale. L’arresto avviene in casa dopo una meticolosa quanto educata perquisizione. È presente tutta la famiglia che, pudica, quasi imbarazzata più che violata, si mette a disposizione delle autorità. Inizia così un calvario fatto di viaggi da Monfalcone, dove vive la famiglia, al carcere San Vittore di Milano, fatto di lettere, di studio disperato delle carte processuali, di silenzi in casa difficili da gestire durante il giorno e ancora più insopportabili la notte, quando tra le mura domestiche non si sente più il forte russare del padre ora lontano. Un calvario lungo sei mesi, i mesi del Mondiale di calcio Usa ’94 che ricordiamo per le imprese di Roberto Baggio e del primo Governo Berlusconi passato agli annali, invece, per aver provato a ostacolare le indagini della Magistratura; periodo nel quale Lorenzo, un ragazzo di appena ventitré anni, affronta la sua prima estate da uomo.
Ai sei mesi di custodia cautelare ne seguo altri sei di arresti domiciliari, e poi ancora sette lunghi anni in cui Giovanni e la sua famiglia rimangono in attesa di un processo che non arriverà, in assenza di prove e di reato, mentre la vita e il tempo appaiono quasi sfumati, fiaccati, trascorsi in una sorta di oblio domestico che nessun ispettore, nessun PM potrà dare indietro. Ma non c’è rancore nelle pagine di Moretto, non c’è rabbia; ci sono invece delicatezza e una grande sincerità, la capacità di mettersi a nudo attraverso il racconto e la voglia, profonda, di comprendere con il racconto un po’ più di se stesso, e un po’ più del rapporto silenzioso e rispettoso che aveva con suo padre.
Questo è il cuore della narrazione: il tentativo di un figlio, ormai uomo e padre a sua volta, di ricostruire il rapporto paterno, logorato dagli eventi giudiziari e da una vita che lo ha condotto lontano da Monfalcone a svolgere la professione di attuario. Un tentativo, tanto narrativo quanto umano, che già nelle pagine del romanzo lascia intravvedere i suoi frutti e mostra come, con la scrittura e l’onestà, il disagio e il senso di colpa possano trasformarsi in pace e in perdono, verso il padre, verso lo Stato e, in fondo, verso se stessi.
Una volta ladro, sempre ladro sa essere anche occasione, per il lettore, di quando invece i capi d’accusa raggiungono noi o qualcuno della nostra cerchia, come ormai siamo abituati a vedere in tv dopo un omicidio o dopo che un avviso di garanzia è stato recapitato a un politico di qualsiasi schieramento. Questa malsana abitudine a farci tutti allenatori quando l’Italia gioca i Mondiali e tutti giudici quando uno scandalo colpisce i palazzi del potere, senza dare invece tempo ai giocatori e magistrati di fare il loro lavoro, di fare il loro dovere con serenità e rigore.
È, questo libro, un’occasione per la società italiana non già di chiudere i conti con il passato, con i caldi primi anni Novanta che interruppero la Prima Repubblica e che ci catapultarono in questa decadente Seconda, apparentemente orfana di ideologie e disperatamente orfana di veri leader e di reali valori politici, quanto di farci i conti, nel tentativo, magari tardivo ma necessario, di fare pace con i nostri padri, che fossero essi padroni e ladri o che fossero essi probi e innocenti. Un’occasione, insomma, come pare suggerire Moretto, di fare la pace con noi stessi e di comprenderci, una buona volta, come figli di questa società schizofrenica.
La scrittura limpida e sempre puntuale di Moretto può davvero porsi come uno dei primi tentativi letterari che prova a ricucire lo strappo con il passato più che enfatizzarne i lati oscuri, che prova a comprenderne il portato umano più che stigmatizzarne le cause e le conseguenze, come se la storia, soprattutto quella recente, non fosse altro che una banale autopsia fatta ora da una parte ora dall’altra delle fazioni politiche in campo.
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