Marciare o uscire dalla fila?
Per il novantesimo anniversario della nascita di Imre Kertész
di Andrea Rényi / 11 dicembre 2019
Nato il 9 novembre 1929, Imre Kertész da più di tre anni non è più fra noi. Quando, nel 1975, è stato pubblicato il suo primo romanzo, Essere senza destino (pubblicato in Italia da Feltrinelli, ndr), pensava che «privato di qualsiasi effetto, esso sarebbe rimasto sepolto nello sprofondo ammuffito di una cantina ungherese», e si è rivolto al redattore della casa editrice con l’affermazione assurda: «Mi può salvare solo la fama mondiale». In quell’attimo – scrive nel gennaio del 1995 in un’annotazione nel suo diario – «era un’affermazione tanto assurda quanto era stata la decisione che avevo preso nel 1954 di fare lo scrittore, per giunta un tipo di scrittore qui inimmaginabile perché il suo punto di partenza non è la prammatica, non si adegua alle circostanze locali ma, per così dire, prende la misura dell’eternità».
Se ci pensiamo, la vita di Imre Kertész è una sequenza di assurdità, e le sue opere rappresentano l’analisi di queste assurdità, accompagnata da una severa introspezione. Conclude la stesura di Essere senza destino il 9 maggio 1973, e già alla fine di luglio la casa editrice Magvető ne rifiuta la pubblicazione. Kertész tira le somme e prende in considerazione l’idea di far uscire il manoscritto clandestinamente dal Paese per farlo pubblicare all’estero: la copia originale di quel testo è andata smarrita ma l’autore ne usa alcune parti nel suo secondo romanzo, Fiasco (Feltrinelli, ndr), e la ricostruzione del manoscritto è fra i suoi ultimi lavori.
Lo scrittore vi riassume le circostanze assurde della propria nascita: «quando sono venuto al mondo il Sole era nel segno della più grande crisi economica fino ad allora mai conosciuta, la gente si buttava di sotto dall’Empire State Building, dal turul (l’aquila immaginaria della tradizione ungherese) in cima al ponte Francesco Giuseppe, e da tutti i punti situati in alto dell’intero globo; si gettava nell’acqua, nei precipizi, sul lastricato, a seconda delle possibilità; un capo partito di nome Adolf Hitler mi guardava torvo dalle pagine del suo Mein Kampf, la prima legge antisemita ungherese chiamata numerus clausus si trovava sullo zenit della mia costellazione prima che il suo posto fosse preso dalle leggi successive. Tutti i segnali terrestri (non so nulla di quelli celestiali) testimoniavano l’inutilità, o meglio l’irragionevolezza, della mia nascita. Ero un inconveniente anche per i miei genitori che stavano divorziando. Sono la manifestazione materiale di qualche incontro amoroso di due persone che non si amavano […]. Figlioletto di mio padre e di mia madre che non avevano più nulla in comune, alunno di un istituto privato dove mi avevano internato mentre loro sbrigavano le pratiche del divorzio; scolaro e piccolo cittadino dello Stato. […] Ero circondato, sovrintendevano alla mia mente: mi educavano. Mi allevavano per eliminarmi, a volte con parole affettuose, altre con rimproveri severi. Non protestavo mai, mi impegnavo a fare il mio meglio: mi lasciavo andare alla nevrosi della buona educazione con languida buona volontà. Ero un membro umilmente impegnato, seppure non sempre perfettamente allineato, della tacita congiura che attentava alla mia vita».
Deve a questa nevrosi della buona educazione se non scappa quando ne avrebbe la possibilità, e sale invece obbediente sul vagone diretto a Auschwitz. L’anno dopo, sempre beneducato, non rimane in nessuno dei Paesi occidentali che gli vengono offerti, sale invece a Buchenwald sul treno in partenza per Budapest, e remissivo, si adatta ancora. Inizia la promettente carriera di giornalista, scrive libretti per commedie musicali di successo; non si ribella e malgrado gli si presenti l’occasione non emigra né nel 1948 né nel 1956.
Per decenni abita con Albina Vas, la prima moglie, in un appartamentino di 28 metri quadrati, insufficiente per due persone, che assurge a simbolo di detenzione: prigione e nascondiglio dell’esistenza intellettuale da lui scelta. All’apparenza Kertész si adegua in tutto all’ambiente esterno, alle opportunità che gli si presentano, quando un evento romanzesco (e in seguito anche romanzato) lo costringe a prendere una decisione bizzarra che determinerà il suo destino: giornalista disoccupato, nel gennaio del 1956 il quotidiano Magyar Nemzet gli affida l’incarico di scrivere un articolo sui costanti ritardi dei treni.
Kertész tornava spesso su quest’episodio, lo racconta anche nel suo discorso di Stoccolma (pronunciato nel dicembre 2002 in occasione del ritiro del premio Nobel, ndt). Ed ecco come ha narrato lo scrittore l’episodio in una intervista inedita: «Stavo in un lungo corridoio completamente vuoto e all’improvviso sentii un rumore di passi provenire dall’ala più corta di questo corridoio a L, che naturalmente non potevo vedere. E questi passi scatenarono dentro di me… Di colpo ebbi una visione sul significato di questi passi, i passi che fino a quel momento avevano caratterizzato la mia vita: marciare e marciare in una grande marcia storica cui partecipano centinaia di migliaia, milioni, e o si marcia con la massa o ci si fa da parte. E io decisi di uscire dalla folla in marcia. Vivevo l’esperienza che avrei incontrato in seguito traducendo Nietzsche, ossia enthousiasmòs dionisiaco che in realtà è un’esperienza di massa, e quest’esperienza di massa è l’essenza della dittatura. Una dittatura come quella nazista o comunista, fatta di continue feste e autoinganno, è capace di trasformare l’odio selvaggio in manifestazioni orgiastiche, e esercita un’attrazione incredibile sulla folla impazzita. L’esperienza dionisiaca ghermisce, e l’uomo abbrancato non se ne esce più perché rinuncia a se stesso, alla sua individualità, diventa parte della massa, si abitua a essa e impara ad amare il caos. Ho capito […] che riconoscendo i pericoli dell’esperienza dionisiaca dovevo operare una scelta, perché mi rendevo conto di quanto fosse facile farne parte. Credo che sia stato un momento esistenziale, comunque in quell’istante fui fulminato dall’idea di dover fare lo scrittore.
In un certo senso era un’esperienza mistica, anche se ovviamente dentro di me qualcosa si stava preparando già da molto tempo: da mesi, persino da anni. Che venne alla luce in quell’attimo. Sentendo il rumore di quei passi dentro di me prese forma quel disegno che fece nascere anche i temi che avrei trattato da scrittore. Nacque quella distanza che sembra caratterizzare i miei lavori, e in quell’attimo ebbi la chiara percezione che il mio dovere era di stare in disparte e di osservare». (Per la cronaca: Kertész scrisse l’articolo commissionato da Magyar Nemzet che fu pubblicato nel giornale l’8 febbraio 1956).
Imre Kertész inizia la sua attività di scrittore autonomo (come figurava per molto tempo sulla sua carta d’identità) in uno spazio in cui la condizione primaria per raggiungere la meta era la rinuncia alla propria identità e corrompersi. A prima vista continua ad adattarsi alle circostanze ma va contro il regime: comincia a svolgere il suo lavoro apparentemente assurdo e privo di qualsiasi garanzia di successo di nascosto, praticamente in clandestinità, e devono trascorrere 19 anni prima che possa prendere in mano una copia stampata di un suo libro; inoltre ha sessant’anni quando viene insignito del primo riconoscimento, il premio letterario Attila József.
Il successo giunge tardi, non può più corroderlo né far sì che faccia concessioni, nemmeno a se stesso. Ha sempre considerato naturale l’esilio dello spirito e a esso adattava la propria vita e la sua strategia di scrittore: «Non avrei potuto sopravvivere, superare quelle condizioni di vita, se non mi fossi messo in disparte, se non avessi creato una forma di vita spirituale in cui quel vivere da outsider non fosse stato prima accettabile, e poi anche costruttivo per me. Quindi anche se risulta un paradosso, devo molto agli ultimi quarant’anni, al fatto per esempio che non mi hanno mai considerato uno scrittore, che anch’io mi sentivo un estraneo nel mondo letterario e non ho cercato di farne parte. Tutto questo mi dava una certa prospettiva…»
Citava sovente la definizione di Emerson secondo la quale eroe è colui che non si sposta dal proprio centro. Kertész la traduceva per sé pensando di dover formare prima di tutto la propria personalità, per poi trasformare la sua vita in un’opera. Come recita il risvolto di copertina (ungherese, ndt) di Fiasco: «La mia morale è vivere e scrivere lo stesso romanzo». Scrivere era ineluttabile per lui e la scrittura era anche il suo campo di battaglia della conquista e riconquista dell’identità. Kertész in tutte le sue opere parla, fornendone anche degli esempi, della grave responsabilità che pesa su di noi nel definire la nostra vita, su come renderla un destino individuale in ogni tempo, in particolare nelle dittature intente ad appropriarsene, e se la nostra storia può insegnare qualcosa anche ad altri.
L’intera vita e opera di Imre Kertész parla di questa lotta e del suo prezzo, e di quello che possiamo fare delle esperienze acquisite e del carico che ci viene lasciato in eredità. In virtù del destino e delle esperienze di vita, Kertész appartiene a quei pochi che possono esprimersi autorevolmente di due terribili dittature del ventesimo secolo; il valore delle sue opere sta nella testimonianza che in lui non si lega mai soltanto al passato e manda sempre un messaggio esistenziale al lettore. Rimanere un outsider ha avuto il suo prezzo ma gli ha garantito la libertà anche nei momenti storici più tragici, e i suoi libri sono stati concepiti in libertà.
Questo non glielo hanno mai perdonato e lui sarebbe stato dimenticato persino più velocemente dei consueti tempi dell’oblio, se non fosse arrivata la fama mondiale, una nuova svolta assurda, la «catastrofe-fortuna» come era solito chiamare il premio Nobel. È riuscito a completare la sua opera degnamente, malgrado l’aggravarsi della sua malattia che correva in parallelo con il crescente successo – l’ha terminata secondo i suoi parametri, come voleva vederla lui e come voleva che la vedessero gli altri.
Tuttavia, e ne era ben consapevole, questa forma nella sua segregazione rimane comunque frammentaria: non solo la sua eredità rivelata (che conosciamo bene o male e con fraintendimenti) è immensa e richiede cura costante, ma la somma delle opere inedite o addirittura dimenticate è di pari volume. L’istituto che porta il suo nome è nato anche per rendere fruibile la parte sconosciuta. Far diventare accessibile quest’opera straordinaria nella sua interezza non è solo rispetto per il morto, ma anche conoscere noi stessi.
Un breve cenno all’attività dell’istituto: è stata posta una targa alla casa dello scrittore in via Török, è stato allestito, secondo la volontà della sua vedova, Magda, il suo monumento funebre, inoltre è iniziata la lavorazione delle opere inedite e la raccolta dei documenti relativi allo scrittore. È disponibile online la raccolta di materiali inerenti e una mostra itinerante è dedicata agli anni fra il 1934 e il 1955 e alla commovente storia della prima moglie di Kertész. Abbiamo appena incominciato il lavoro e abbiamo ancora molto da fare per arrivare anche solo a stimare quanto dobbiamo a quest’artista eccezionale.
***
(Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul quotidiano ungherese Magyar Nemzet il 10 novembre 2019. Articolo di Zoltán Hafner, direttore dell’Istituto Imre Kertész di Budapest. Traduzione di Andrea Rényi)
Comments