Il tempo di non morire, nella spettrale, fascinosa Manchester
A proposito di “Carmel” di Gwendoline Riley
di Rino Garro / 17 dicembre 2019
La Manchester notturna di fine millennio affiora nitidamente davanti agli occhi rileggendo Carmel di Gwendoline Riley (Fazi, 2003) per la bella traduzione di Federica Bigotti.
La storia è semplice, esile al punto da diventarne il valore aggiunto. Carmel Mckisco lavora di notte in un dive bar di Manchester, un posto disadorno, con tavoli e sgabelli scheggiati in procinto di cedere. Poco più che ventenne, affranta da vicende famigliari da cui è fuggita, deve ora superare il dolore per la rottura della relazione con Tony, uno dei tanti clienti del locale.
È stata Margi, stessa età di Carmel, a convincerla a lavorare insieme al dive bar, poco da fare e lungo tempo per chiacchierare e leggere e ascoltare musica. Carmel e Margi condividono non solo gli spogli appartamenti in periferia ma soprattutto gli stati di umore regolarmente alterati dall’alcol e gli splendori e le miserie d’animo comuni ai giovani nel loro farsi adulti.
Le due amiche condividono anche il desiderio di fuggire dalla tristezza che le avvinghia e dallo squallido e opprimente panorama urbano che le circonda. Ma è proprio il fascino decadente e nichilista della Manchester notturna, dei suoi tanti personaggi svalvolati e evanescenti in cerca di illusori successi in ambito musicale, che le costringe a non andare, a non trasferirsi nell’agognata Cornovaglia.
Agghiaccianti nella loro crudezza sono i primi paragrafi del secondo capitolo, da cui emerge lo stato di terribile solitudine che opprime ciascun componente della famiglia di Carmel. Sono pagine di profondo malessere, che danno il senso e la misura del vuoto contro cui Carmel deve quotidianamente lottare: paure e mostri invisibili sorvolano, abitano e ghermiscono la sua giovane mente.
Quando poi arriva l’amore, Tony sembra riuscire a condurla – per voli e istanti di possibile serenità – in altri mondi, in paesi lontani, esotici. Ma dopo qualche tempo, e nessun preavviso, con poche parole Tony le dichiara il suo disinteresse per la loro relazione; cosicché Carmel si ritrova di colpo nella cupa, piovosa, dolorosa Manchester. Il tutto avviene senza che Carmel provi a chiederne il motivo o obiettare qualcosa, azzardare magari il finto, estremo tentativo dell’innamorato affranto. Niente. Bocca cucita, o quasi.
Molti dei personaggi che (non) agiscono nel romanzo sono giovani e giovanissimi. All’apparenza, essi hanno già dichiarato la propria resa incondizionata; si vedono vivere, inermi, senza alcuna prospettiva se non per il presente immediato, fatto di alcol droga e rock’n’roll. Non molto diversa è la condizione di Katja, che, arrivata da Praga per imparare l’inglese, finisce con lo starsene rintanata tutto il giorno nel suo minuscolo e spoglio flat di Hulme, preda della disperata attesa di qualcosa che la liberi da quelle catene.
Una delle speranze segrete di Carmel è – ovvio – incontrare l’uomo che possa scacciarle il ricordo di Tony, di cui è ancora profondamente innamorata. Il caso la porta a incrociare Lucas, un ragazzo americano con la camminata da cowboy di rientro a Austin il giorno successivo, ma sarà il caso stesso a far abortire la loro probabile storia d’amore.
Nel romanzo tutti i personaggi, pur con sembianze di spettatori inermi, sono in realtà artefici del proprio destino: incatenati dalle inettitudini, dalle debolezze e dalle illusioni che parrebbero isolarli per sempre da sé stessi, oltre che dagli altri. A sottrarre, probabilmente, Carmel da un finale così nefasto, quando non in preda a depressioni e hangover distruttivi, è il materializzarsi con icastica plasticità del terrore di vedersi diventare come qualcuno dei clienti del dive bar, vecchie spugne derise e consapevoli; o come Steven Unsworth, uno dei molti musicisti bruciati dalla droga a cui aveva legato il suo amore di ragazzina.
Così ora, nel tentativo di recuperare gli intermezzi di serenità perduta, Carmel si costringe alla ricerca dello squat dove vive Steven, a Macclesfield, e con qualche sotterfugio riesce infine a individuarlo. Quella che appare agli occhi di Carmel è una scena terribile, tenera e drammatica allo stesso tempo, che può considerarsi emblematicamente conclusiva: «Steven dormiva rannicchiato su un letto da campeggio, completamente vestito. Non c’erano mobili eccetto il letto, anche se c’erano alcune candele, un registratore e una scatola di cartone piena di cassette. Mi sono avvicinata un po’ e guardandolo ho sentito qualcosa scorrere dentro di me […]. Ho poggiato la mia borsa per terra e mi sono inginocchiata vicino al letto. Ho notato che aveva dei cerchi scuri e lividi sotto gli occhi, e che le sue labbra erano pallide e piene di croste; respirava, a scatti, dalla bocca socchiusa.
“Gesù, cosa hai fatto?”, ho sussurrato, “Guarda che cosa hai fatto!”
Mi sono seduta sul bordo del letto e mi sono sfilata le scarpe. Poi, con cautela, mi sono stesa accanto a lui e ho messo il suo braccio esile attorno a me, tenendo la sua mano fredda e delicata, e chiudendo gli occhi, nella sua stanzetta, illuminata soltanto dalle fiamme danzanti e morenti di due candele da chiesa che stavano per terra accanto al letto insieme a un posacenere, e a un block-notes».
Ciò che non fa sprofondare Carmel nel più cupo disfacimento è dunque la fiammella sempre accesa dell’amore, da dare e ricevere, e quella dell’aspirazione fintamente nascosta di una carriera da scrittrice; ma è anche la scoperta di una imprevista spiritualità avvenuta tramite il libro di preghiere regalatole da uno dei suoi stravaganti amici.
Il romanzo di Gwendoline Riley, attraverso un linguaggio scarno e poetico, e una costruzione quasi diaristica che sottrae al racconto il romanzesco, restituisce con forza il palpito di ragazzi e ragazze in bilico sulle proprie vite, negli anni considerati sempre i più belli soltanto quando li si guarda retrospettivamente.
(Gwendoline Riley, Carmel, Fazi, 2003, 136 pp., trad. di Federica Bigotti, art. di Rino Garro)
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