La libertà è
una faccenda complessa

“Ossigeno” di Sacha Naspini

di / 7 marzo 2020

Copertina di Ossigeno di Sacha Naspini

Ossigeno (Edizioni e/o, 2019), il nuovo romanzo di Sacha Naspini, è un cortocircuito di gabbie non solo reali ma soprattutto mentali.

Libro inclassificabile, un po’ thriller, un po’ noir, un po’ romanzo inchiesta, ma pure dramma familiare e di indagine psicologica, trascina i lettori nelle coscienze dei suoi personaggi, alterate, disperate, sconvolte da un ampio ventaglio di sentimenti, di pensieri, di pulsioni e istinti, anche di quelli considerati più abominevoli, di cui è difficile liberarsi perché ritenute distorsioni o tare familiari. Ma proprio per questo ne rimaniamo scottati e allo stesso tempo  sedotti.

Ossigeno ha una struttura polifonica, giocata su svolte narrative inattese, che inizia laddove di solito un thriller finisce, con l’arresto dell’assassino e la liberazione della vittima. Il fatto di cronaca sembra una dei tanti ascoltati quotidianamente nei telegiornali: uno stimato professore universitario e irreprensibile e premuroso padre di famiglia viene accusato di aver rapito e sequestrato in un container ragazzine e di aver fatto sparire i loro corpi. Solo Laura è sopravvissuta 14 anni rinchiusa in quella scatola di latta dall’estate 1999 all’ottobre 2013.

Ma Naspini non si soffermerà a indagare le motivazioni che hanno spinto Carlo Maria Balestri a una simile ingiusta atrocità. All’autore interessa il lato oscuro dell’animo umano. Quello che rende il romanzo fortemente coinvolgente è lo scandaglio delle conseguenze sulle vite delle persone investiste dall’accaduto.

La ricchezza del primo capitolo sta tutta nello sguardo di Luca, il figlio di quello che è diventato il «mostro del golfo», che vede la sua esistenza sconvolta una sera a cena dall’irruzione dei carabinieri. La forza dirompente di scoprire che suo padre ha una doppia personalità e una doppia vita scatena una tragedia interiore nel ragazzo e lo porta a leggere in una luce diversa anche semplici episodi della sua vita di figlio. Quella che dunque sembra essere una delle tante domeniche in giro in macchina con il padre viene analizzata con sospetto: quel portacenere di vetro in cui il papà imprigiona l’insetto stecco, un animaletto apparentemente inutile, era forse un segnale della morbosa voglia del genitore di catturare creature innocenti e poi «Vediamo cosa fa»? È Luca stesso una vittima, tanto da domandarsi «facendosi catturare ha messo una campana di vetro su di me. Aveva calcolato anche questo? Sono il suo ultimo esperimento?» E non è Luca affetto, contaminato dalla stessa natura del padre come sospetta la gente?

«Nella gente della cittadina vive il sospetto che io abbia il medesimo veleno. Anch’io lo penso […] Tutti sanno chi sono, da dove vengo. Sono nato e cresciuto nelle stanze del Male. Non riescono a separare mio padre da me. Anche il sottoscritto è un’impresa: la mia identità non è solo quel che percepisco; è ciò che percepisce la gente».

Avvertiamo il dilemma del protagonista, prigioniero della sua storia. La scrittura fortemente evocativa fa da filtro e argine a un flusso perpetuo di pensieri spezzati. Percepiamo lo sforzo immane di Luca di mantenere la propria intima e autentica umanità, perché spaventato di avere ereditato il gene del male. Laura per lui diventa una vera ossessione, una colpa da espiare: «Quel che non dico è che Laura è un mio investimento: deve salvarsi. Non può perdere tempo. O forse le serve proprio questo: sprecarne un po’, di sua volontà. Starsene nella sua stanza e non fare niente, con la musica in sottofondo. Come nel container. Però lo decide lei. Se vuole uscire basta mettersi le scarpe. Anche buttarsi dal quarto piano è una eventualità. La libertà può metterti davanti a un ventaglio di ipotesi inaspettate».

Nel secondo capitolo si cambia prospettiva e voce narrante. Una terza persona lucida e impersonale ci narra gli anni della prigionia di Laura. Non c’è violenza né morbosi e perversi appetiti sessuali che il professor Balestri deve sfogare, solo la malsana curiosità dello studioso che osserva, ammaestra e istruisce la propria cavia, tanto che la giovane quando uscirà saprà quattro lingue e programmare in dos. La bellezza del romanzo è qui tutta basata sull’analisi delle pulsioni di vita e morte che attraversano il carceriere e la sua vittima e ne fanno due esseri contradditori e ambivalenti.

Nei capitoli successivi è il tema del ritorno e dello smarrimento della persona amata, ma ormai estranea, che esso provoca a essere centrale. Seguiamo Laura, e Luca con noi, che nel tentativo di dare una misura alla ritrovata libertà, esplora la città in lunghe camminate, mischiandosi nella folla, salvo d’improvviso doversi rinchiudere nel bagno di un bar o in un armadio, per quel bisogno inconscio di sentirsi protetta fra quattro mura che non l’abbandona.

Poi c’è la madre di Laura, Anna, il cui precario equilibrio psichico difficilmente riconquistato verrà scosso dal ritorno di questa figlia che sembrava perduta: «Nel sottofondo sconcio di me c’è una matta che strepita giorno e notte: quella figlia non doveva tornare. La sua ricomparsa è uno schiaffo al lavoro fatto per salvarmi».

Ruvido, complesso, profondo, Ossigeno è un libro con cui mettersi alla prova e scavare in quel territorio di noi stessi che non sappiamo definire ma che sentiamo minaccioso e che porta una persona a essere a tratti estremamente gentile e sensibile, a tratti sadica e violenta.

 

(Sacha Naspini, Ossigeno, Edizioni e/o, 2019, pp. 224, euro 16, articolo di Chiara Gulino)
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