Dove non servono parole
Su “La lingua della terra” di Giacomo Revelli
di Cristiana Saporito / 6 aprile 2020
Giorno di quarantena innumerato. Il virus impazza, in un dove x al di là della porta. Si guerreggia ancora in corsia, sfidando la morte a braccio di ferro e noi, soldati semplici e annoiati, ci scaviamo la trincea sul divano, con dosi sempre più esili di resilienza. Le restrizioni continuano, non possono flettersi. Per la nostra conservazione polmonare e il nostro progressivo smantellamento mentale.
Per non uscire di testa usciamo tra altre teste, tra mangrovie di storie in cui sentirci al sicuro. E ci sgomenta leggere una trama qualunque e trovarla così ucronica, tappezzata d’incontri, progetti, saluti, un intero alfabeto di prossimità che abbiamo riposto nell’ultimo cassetto. Assieme a quelli che sembravano dilemmi inossidabili, grovigli di polemiche e dibattiti per i quali al momento il posto è esaurito, a bordo del nostro monotematico pianeta.
Giacomo Revelli, fino a due mesi fa, prima di questa realtà congelata e spettrale, avrebbe proposto un racconto attuale. Che ovviamente speriamo torni ad esserlo presto. Con un titolo azzeccatissimo, La lingua della terra (Arkadia, 2019) si presenta come una vicenda familiare e territoriale. In cui famiglia e territorio costituiscono due vasi comunicanti, raccordati dalle stesse radici. Che nutrono, che annodano, che imbrigliano i passi ma che comunque scongiurano il crollo.
Casa propria è chi si ama e dove si sta, quel polverio sottopelle di gesti, di odori e di voci in cui specchiarsi e assaggiare ogni giorno il proprio riflesso. La “casa” di questo romanzo è la Liguria, più precisamente la zona dei Lüghéi, area preziosa di terrazzamenti, di orti incastrati come segreti e uliveti estorti alle montagne. Un anfratto di mondo dove solo un’efferata pietrosa ostinazione sa negoziare con la terra, dove risuonano verbi arcaici come campane: zappare, falciare, irrigare, ascoltare l’orchestra del cielo, con le sue pulsazioni di battere e levare.
Bedè fa il contadino esattamente come suo padre prima di lui, entrambi conoscono un idioma di sudore e pazienza, indispensabile per coltivare. Per attenersi e ottenere. «Per qualche giorno di sole o di pioggia in più, un intero raccolto può andare a male, oppure arrivano i parassiti, l’oziorinco nel ruscus o la mosca negli ulivi, o le mimose fioriscono troppo tardi o troppo presto. Tutto è regolato da stagioni, cicli e fasi che non avvisano, non ci avvertono, non urlano mai. Passano e basta».
Quella linea di sapienza ancestrale si frattura con i figli di Bedè. Il primo, a cui tocca narrare, ha scelto di studiare Ingegneria e, mentre suo padre torna dai campi fangoso e affamato, lui fronteggia un faggeto di equazioni e vettori. Lui sceglie di restare seduto. Suo fratello, più piccolo e scapestrato, quell’estate decide invece d’innamorarsi, di precipitarsi al mare e lasciarsi incantare da una sirena milanese. Starebbe per dipanarsi un tipico inesorabile conflitto generazionale. Che fine farà quella terra, quella scommessa testarda intessuta di reti da stendere, di attese da potare, di grappoli d’olive da raccogliere con fede? Che fine farà quando Bedè sarà finito? Lui da solo a settant’anni non può più gestire l’ammontare del da farsi. E sua sorella, zia Catainìn, è già pronta a sbarazzarsi della sua quota di terreno per acconsentire che si trasformi in cemento.
Ma nel cuore sistolico di questa crisi, un mattino qualunque ai Lüghéi irrompe un intruso, uno straniero con gli «occhi crudi». Bedè resta interdetto, non sa come agire davanti a quel corpo raggrumato nel timore. Non si muove, non mangia, non parla. Non si sa come si chiami né da dove venga. Ma Bedè, nella limpida assenza di un vocabolario comune, cerca altri lemmi. Capisce che quel ragazzo ha solo bisogno di un rifugio, di qualcuno che non lo cacci ancora.
Quel cibo offerto che stagna intatto di giorno, gli avanzi respinti dai figli troppo sazi, viene ingerito soltanto al tramonto e così cominciano a emergere segni ed essenze della sua abitudine. E dopo poco Bedè constata che con quel giovane sbucato dal niente ha più da condividere di quanto stimasse. Lo straniero parla la sua lingua, che è appunto quella della terra. Intelaiata di mosse, di sforzi, di attrezzi pesanti e di fiato corto. Di gambe indurite e ceste e rastrelli e alberi da scuotere. Di rigore e perseveranze.
Le stesse umiltà del sacrificio contadino che un altro Revelli, Nuto, ha scolpito nel suo capolavoro Il mondo dei vinti. Dopo vari decenni, quella stessa terra, drogata, abusata, impoverita, chiede ancora coraggio a chi crede in lei. E lo straniero piombato da un Paese fuori dalla sua cartina, quella di una crociera mai realizzata, è il tempo del futuro piovuto sui Lüghéi. È l’aiuto che mancava. Bedè, che non sa spiegarselo, non ne ha bisogno perché lo sa già. Che un essere umano soggioga tutti i ridicoli tentativi di etichetta.
Il compito più ruvido sarà dirlo agli altri, alla moglie, ai suoi figli, alla gente per cui è un clandestino è tutto racchiuso in quella parola. Che non porta frutto. Che ruba anche l’ombra.
La lingua della terra è una storia di amori e diffidenze antiche. Che Revelli snocciola con pagine nitide e immediate. Molto apprezzabili quelle dedicate ai suoi luoghi, che l’autore culla nel sangue: «Ogni mattina la luce cala dalla collina […], lì prende un verde più acuto e meno severo, un verde da tutti i giorni. Solo allora è veramente giorno su quegli orti ammucchiati uno sull’altro, con quella terra che vorrebbe scappare ma non può, trattenuta dai muretti a secco come braccia che aiutano l’uomo a stringerla a sé».
Protagonista, assieme ai suoi Lüghéi, è certamente Bedè. I suoi figli sembrano un unico personaggio sdoppiato, l’uno che studia e racconta, l’altro che si sporca d’amore. Due lati fragili della stessa età e nessuno egemonizza l’altro, nessuno ha la sua forza attrattiva. È lui, Bedè, il collante e la ricchezza del romanzo, col suo dialetto scuro e ferroso (necessariamente tradotto), i sentimenti elementari e saldi come i suoi silenzi, l’asperità di scorza e la dolcezza del succo.
È lui che lascia sperare che, al di là delle provenienze singole e delle singole istruzioni, esista un solo orizzonte, lo stesso di chi parte e di chi come noi è costretto a restare. L’orizzonte per comprendere quanto in una dimensione di distanziamento imposto siano stupide tutte le altre distanze che reputiamo irrinunciabili. L’orizzonte di chi si ammala, di chi cura e di chi aspetta, perché forse sono solo modi diversi di marciare verso la guarigione. Verso il lieto fine.
(Giacomo Revelli, La lingua della terra, Arkadia, 2019, 200 pp., euro 14, articolo di Cristiana Saporito)
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