Tutti sostituibili

Siegfried Kracauer, “Gli impiegati”

di / 8 maggio 2020

copertina di Gli impiegati di Kracauer

«Perché essi alla proprietà non arriveranno mai, nonostante tutti i loro sforzi, anzi si dovranno contentare di ammirare il loro ufficio e se stessi dentro quell’ufficio, fino al punto di confondersi con esso; non sapendo che l’ufficio è di mia proprietà e che essi, confondendosi con quei cristalli, quei mobili e quell’aria condizionata, ma quel che è più importante, coll’essenza di tutte queste cose, automaticamente diventano miei, appunto come quelle cose».

Era il 1964 quando Goffredo Parise scrisse queste righe nel suo romanzo dimenticato Il padrone: l’Italia viveva i suoi anni lievi e seducenti, quelli del miracolo economico, della bianchina parcheggiata sotto casa, dei tacchi costretti a far rumore sull’asfalto umido; dei tram affollati nella Milano grigia e perduta, punteggiata di finestre chiuse e di luci indebolite dalla fatica. Gli anni delle città dalla doppia anima, che celebravano il daffare agitato delle monadi terziarie aspramente descritte anche da Luciano Bianciardi, ma arrossivano di fronte alla «borgata allagata dalla pioggia» tanto cara a Pasolini nel suo Una vita violenta. Fu allora che gli oggetti abbandonarono la reputazione di cose e presero vita: iniziarono silenziosamente a invadere le case, a definire le nostre esistenze, a dar loro un peso, un valore, un’identità.

Il mondo raccontato dal lessico tagliente e crudele di Parise, è l’immagine diffratta di una storia che affonda le radici in luoghi e tempi diversi. Nel 1930, infatti, vent’anni prima di Mills e del suo lavoro sociologico Colletti bianchi. La classe media americana, un giovane architetto tedesco scrisse un libro di un centinaio di pagine dal titolo esplicito Die Angestellten (Gli impiegati), ora ripubblicato da Meltemi (2020). A essere precisi, Siegrfried Kracauer non era solo un architetto: si avvicinò al mondo culturale tanto da scriverne sul quotidiano Frankfurter Zeitung e diventare uno dei più illustri critici e teorici del cinema; restò ammaliato dalla sociologia e dalla filosofia, o meglio, da chi in quegli anni, tentava di ridefinire gli incerti confini di entrambe. Amico di Georg Simmel e allievo di Husserl, Kracauer cominciò a gravitare intorno alle carismatiche figure di Adorno e Benjamin, e divenne, in poco tempo, un osservatore sottile e paziente. A Benjamin, in particolare, lo univa il gusto per le contraddizioni, l’attrazione irresistibile per la compresenza negli uomini di alienazione e aggregazione e, soprattutto, l’abilità di svelare l’ingannevole seduzione del sistema.

Gli impiegati è una pionieristica indagine sociologica sul campo: Kracauer ha vissuto con i lavoratori, li ha osservati in ufficio, al cinema, al bar; ne ha raccolto i pensieri e i disagi. La Berlino degli anni Trenta è una metropoli in espansione, che brulica di questa nuova classe media stipendiata dalle grandi aziende: «i posti non sono professioni che siano fatte su misura per determinate personalità, ma posizioni nell’azienda che sono create secondo le necessità del processo di produzione e distribuzione».

Assumere un impiegato significa allora scandagliarne il corpo e tastarne la psiche: «Il candidato viene osservato: in che modo dispone le fatture che deve mettere in ordine? Si fanno esami fisiognomici e grafologici». Si valutano il Leib e il Körper, ossia il corpo vivente e il corpo oggetto teorizzati da Husserl; un aspetto «gradevole» e una «carnagione moralmente rosa» sono indicatori essenziali. Occorre sembrare «perbene» e «simpatici», concetti difficili da definire e tantomeno da riconoscere (la simpatia è immanente all’oggetto di indagine, o è solo la proiezione del soggetto esaminatore?).

I segni ominosi della vecchiaia riducono le possibilità di essere assunti: gli impiegati trentenni per paura di diventare desueti, ricorrono allo sport e alle tinte per capelli, contribuendo a creare il nuovo mercato dell’estetica. La razionalizzazione elargisce sempre più potere a nuove posizioni di kafkiana memoria, come il caporeparto, ossia il subordinato che ha conquistato la fiducia del superiore, divenendone di fatto un emissario.

La massa impiegatizia si muove al buio, senza sapere né dove sta andando, né perché: a differenza di quella proletaria, è, infatti, «spiritualmente senza tetto». Non ha un’identità, né tantomeno consapevolezza: vive nell’illusione di possedere un’anima borghese e, perciò, ne conserva con cura le abitudini e i rituali. Non sa neppure di appartenere a una massa, perché crede fideisticamente nel potere morale dell’individualismo: non si riconosce come singolo oggetto sostituibile, ma si illude di essere indispensabile all’azienda e di meritare il posto che occupa.

La classe media tedesca si rifugia nei bisogni culturali, spendendo il denaro guadagnato in mostre e cinema, ma non per trovare risposte: il loisir, incoraggiato dalla società, serve a far credere «agli impiegati che una vita svagata sia insieme quella che ha più valore». Occorre dissimulare il reale, attraverso il fascino dello splendore: ma, come ci ricorda Kracauer, «non appena il cameriere spegne la luce subito ricompare la giornata di otto ore». D’altronde, scriveva Parise: «Com’è lento e duro gettare luce in se stessi. E quante ombre e quante false sagome di salvazione attraversano quel fascio di luce mostrando sembianze che paiono vere e umane quando invece sono irreali e illusorie!».

Non bastano, allora, le parole sussurrate dalla coscienza per convincere gli impiegati che le lusinghe nascondono, in realtà, solo una taciuta condanna. Chi osa alzare lo sguardo, è destinato paradossalmente a vedere l’abisso: «Trentanove anni, sposato, tre bambini (quattordici, dodici, nove anni). Non guadagno nulla da tre anni. Prospettive? Lavoro, manicomio o gas». È solo una delle sei risposte a un questionario sulla disoccupazione riportate da Kracauer: è la Germania degli anni Trenta ma sembra il mondo di oggi. O quello crudele raccontato nelle pagine memorabili di Parise; e di Bianciardi, quando nel suo La vita agra descrive con una nitidezza disarmante lo sterile processo di licenziamento: l’aria è diversa, i colleghi non sono più gli stessi («paiono vuotarsi della loro sostanza spirituale»), arriva una lettera, sempre uguale, sempre la stessa, cambia solo il nome e, in un attimo, si diventa fantasmi. O barattoli, secondo Parise. Le tracce del proprio passaggio vengono rapidamente cancellate attraverso un rituale di pulizia e occultamento simile alla damnatio memoriae. Basterebbe questo a far capire la forza e l’universalità del pensiero di Kracauer, che in poche pagine non ha solo svelato un mondo, ma ha saputo creare una vera fenomenologia del lavoro.

 

(Siegfried Kracauer, Gli impiegati, Meltemi, 2020, 160 pp., € 14.00 | Articolo di Elisa Carrara)
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