Agiografia, bullismo e trionfo
A proposito di “The Last Dance”
di Luigi Ippoliti / 22 maggio 2020
Vale la pena porsi alcune domande dopo aver assistito alla celebrazione di Michael Jordan nella docu-serie Netflix The Last Dance. Celebrazione di Michal Jordan, sì: non c’è margine, infatti, per pensare che quest’opera sia il racconto di una squadra, i Chicago Bulls, che in otto anni sono riusciti a vincere sei titoli.
Vale la pena, ora, non fermarsi a ricordare quanto Micheal Jordan fosse fenomenale in campo. Chi conosce la pallacanestro lo sa e chi non la conosce lo sa comunque. The Last Dance assolve del tutto la questione. In fin dei conti, non era una cosa difficilissima, visto che stiamo parlando proprio di Michael Jordan.
Cos’è stato, quindi, in linea teorica, The Last Dance? Non è stato il racconto incentrato unicamente sulla stagione culminata con il sesto anello per i Bulls, come si pensava, ma una storia con flashback continui attraverso cui è stato possibile capire per quale motivo sia stato così importante quel canestro di MJ dopo il crossover su Byron Russel del 14 giugno 1998.
Ma, appunto, non è stata la celebrazione di una squadra: bensì la celebrazione di un unico giocatore.
La storia stessa della carriera di Michael Jordan è qualcosa di narrabile di per sé. Il cosa accade, oltre al chi la fa accadere. Un racconto che sarebbe potuto uscire su McSweeney’s sull’ipotetico sportivo più forte di sempre se MJ avesse fatto, non so, il contabile. Dunque, a guardarlo bene, non è solo la grandezza di Jordan l’input da cui parte il tutto. L’ascesa, la popolarità planetaria, la partecipazione a Space Jam, i due ritiri, i problemi con il gioco d’azzardo, l’assassinio del padre. C’è molta carne al fuoco.
Dunque, Jordan che dà l’ok per la diffusione di tutto il materiale inedito che veniva tenuto nascosto nelle stanze segrete di David Stern come fosse (e probabilmente lo era) la cosa più preziosa che potesse gravitare attorno al mondo NBA, deve essere suonata come una sorta di regalo di un Dio alla sua gente. Il problema, però, è che fare un racconto su Jordan senza che Jordan lo cannibalizzi è praticamente impossibile.
The Last Dance è stato, senza troppi giri di parole, cannibalizzato da MJ, allo stesso modo in cui MJ cannibalizzava compagni di squadra e avversari, media, e quant’altro. La sua presenza, soprattutto fisica, è stata schiacciante. È chiaro, di fronte a Michael Jordan è difficile ragionare con le stesse istanze – siamo tutti un po’ succubi del suo talento – con cui ci troveremmo a parlare di chiunque altro (anche altri grandissimi dello sport, da Federer a Maradona, da Schumacher a Valentino Rossi). Michael Jordan non è umano, ce lo diciamo da sempre. Ma proprio per questo è necessario fermarci un attimo e riflettere su ciò che abbiamo visto.
Ho passato l’infanzia e l’adolescenza con il mito di MJ, poster in camera e Air Jordan e quindi metto le mani avanti: non c’è nessun tipo di strano rancore, nessuna voglia di parlar male di un prodotto del genere perché ha preso una clamorosa impennata mainstream, nessun mettersi forzatamente di traverso. La storia dei due three-peat dei Bulls è epica e qui nessuno mette in dubbio il fatto che MJ sia stato il cestista più forte di tutti i tempi. Un’icona, il momento di passaggio della NBA e di tutta la pallacanestro nella modernità etc etc. Vorrei solo cercare di ragionare attorno a un paio di questioni: quella di The Last Dance come una sorta di agiografia on demand, e quanto certi atteggiamenti tirannici di alcuni giocatori nei confronti di altri siano effettivamente tollerabili.
Nel racconto che il regista Jason Heir ci fa, tutto e tutti sono influenzati dalla presenza di Michael Jordan. L’occhio del regista, l’occhio della camera, l’occhio dello spettatore: tutto filtrato da cosa Michael Jordan pensa di quella o di quell’altra cosa. Televisivamente parlando, può avere senso ciò che è stato fatto. È chiaro che il racconto si fa alla potata di chiunque se incentrato prepotentemente su un personaggio del genere, e che MJ tiri (scusate l’ambiguità lessicale) più di John Paxsons o di Luc Longley: basta allora semplicemente ragionare sul fatto che ci troviamo di fronte ad altro rispetto a quello che potrebbe essere un documentario, qualcosa di oggettivo. Ma pensarlo semplicemente come la narrazione di un mito. È folle aver pensato che The Last Dance possa lasciare, ogni tanto, una sensazione simil-inquietante di un “documentario” fatto in Corea del Nord sulla vita di Kim Jong-un ?
Dopo due/tre puntate in cui emergono un paio di altri protagonisti (Pippen e Rodman), il racconto diventa smaccatamente cosa pensa MJ di quello che è successo nella NBA in quegli anni.
Le ombre che sono apparse durante la sua carriera e che sono state fatte vedere in The Last Dance (il processo di Slim Bouler, i debiti per il gioco d’azzardo, il non supporto al candidato afro americano Harvey Gant «Anche i repubblicani comprano le scarpe»), alla fine, hanno finito per avere esclusivamente una funzione narrativa, più che documentaristica. Ogni volta che l’immagine di MJ è stata messa in discussione, nel racconto è stata riabilitata dalla retorica del “Quella cosa lì mi ha dato ancora più forza per vincere”. Ed è stato un continuo per tutto il corso della docu-serie, al limite dello stucchevole.
Tutte le questioni più controverse di Jordan, visto che di fatto non si è parlato esclusivamente dell’ultimo anno dei Bulls, avrebbero magari avuto bisogno di un respiro ben più ampio, più profondo. Non un semplice espediente per mantenere alta la tensione del racconto.
Esemplare, poi, è il discorso che ruota attorno a Jerry Krause. L’ex GM dei Bulls è scomparso tre anni fa. Quindi non ha avuto modo di poter controbattere alle accuse di Michael Jordan. L’immagine che abbiamo di Jerry Krause è quella di Michael Jordan, della sua percezione della storia: una visione fastidiosamente parziale. A passare è l’idea che Krause sia una specie di sadico diavolo egocentrico che faceva le cose un po’ a caso – e infatti Toni Kukoc ha avuto da ridire sulla gestione dell’argomento e, solo nel finale, Scottie Pippen, in zona Cesarini, lo riabilita definendolo il miglior GM della storia.
Il racconto che esce fuori in The Last Dance è, dunque, qualcosa di troppo sbilanciato su un versante, la celebrazione del singolo sul collettivo. In definitiva, la ricerca continua di antagonisti (Isiah Thomas, per esempio) con cui gonfiare ancora di più l’ego spropositato di Jordan, rende The Last Dance più simile a una saga tipo Star Wars e non a un documentario vero e proprio.
Possiamo dirlo, allora: Michael Jordan, quantomeno nella sua dimensione sportiva, è un bullo. Da questo possiamo partire per riflettere se certi atteggiamenti tirannici possano essere tollerabili. E fino a quanto possiamo risponderci: beh, ma è Michael Jordan, lui se lo può permettere. È una risposta, questa, che va in automatico e che è il riflesso di un modo di intendere il successo come un percorso lungo il quale avere atteggiamenti del genere sono accettati nel nome stesso dell’avercela fatta.
L’arrivare in alto si tramuta, spesso, nel termine predestinato, relegando in qualche modo al divino una responsabilità che è solo umana. Michael Jordan incarna pienamente tutto questo. Se raggiungi l’obiettivo, hai il diritto di trattare gli altri sostanzialmente come fossero spazzatura. E finisce per passare che sia giusto così.
Questo ci pone di fronte a una questione che lega lo sport alla vita. E di quanto spazio ci sia tra lo sportivo e l’essere umano. Se, all’interno dello sport, certe situazioni possano essere giustificate in quanto sport, e quindi altro dalla vita stessa. Ma lo sport è un modello popolare, attraverso il quale si possono plasmare le abitudini degli esseri umani. Siamo sicuri, dunque, che veicolare messaggi del genere sia accettabile? Perché lo sport professionistico, persa l’accezione romantica di Decoubertin, è un riflesso della società, da cui riesce a prendere il peggio se portato ad altissimi livelli e, con lavori mainstream come The Last Dance, a rivomitarlo nella società. Un circolo vizioso difficile da spezzare.
Michael Jordan ha fatto fare un upgrade al tutto, facendo raggiungere allo sport un punto mai raggiunto prima e a cui neanche lui è sempre riuscito a stare dietro.
La retorica di Jordan del “Quello mi ha fatto quello, ora lo punisco” “Quello non mi ha fatto quello, ora gli faccio vedere chi è il più forte” ogni qual volta che qualcuno ponesse qualche dubbio su di lui, fa spavento per quanto sia netta e decisa, metodica. Meccanica è forse il termine più esatto. Con The Last Dance capiamo una cosa su Michael Jordan: dietro l’immagine pulita che veniva data in pasto al pubblico, c’era (e c’è) un universo contraddittorio, fatto di rinunce, di distanze. L’enorme contraddizione tra il mercato, il mito e l’essere umano. È Michael Jordan stesso a farcelo capire, spesso commosso davanti alle telecamere: a farci capire quanto sia stata dura e disumana una vita del genere.
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