Un labirinto in frammenti
“Piccole apocalissi” di Livio Santoro
di Teodora Dominici / 22 giugno 2020
Sulla sottile linea di demarcazione tra il disturbante e il divertito, si trovano come piccoli satelliti questi brevi input di taglio ora narrativo ora descrittivo ora immaginifico, una raccolta che ben si accorda nello spirito generale e nella fugacità al titolo del secondo racconto che vi appare, Piccole apocalissi, scelto appunto come nome dell’intero lavoro.
L’autore è Livio Santoro, già apparso sulle riviste di narrativa breve effe, Nuova Prosa, Achab e Crapula ed ora approdato alla prima sua raccolta (Edicola, 2020).
Il libro si compone di 49 frammenti, talvolta di una pagina ciascuno – ma ve ne sono anche di più piccoli – perfettamente autosufficienti e conchiusi, in cui il titolo, proprio per l’effettiva brevitas dei testi, acquista in ciascuno un protagonismo speciale, commentando, chiosando, semplicemente impostando l’atmosfera, oppure mettendo in atto una sorta di sagace contrappunto con quel che segue.
Per quanto riguarda le tematiche, siamo di fronte a un intero bestiario di strane creature letterarie sempre in bilico tra il reale e il deformato, l’accettabile e il paranormale, il concreto e l’inquietante. La stessa “natività” bordeline che campeggia in copertina, un impasto di suggestioni visive di matrice eterogena che la rendono una sintesi tra iconografia cristiana, l’iconicità degli sciamani pellerossa e un’allucinata metamorfosi kafkiana, ci proietta subito in quello che sarà un viaggio di confine, dove è l’ombra a tenere banco, aggregandosi e disgregandosi ai margini del nostro subconscio come le particole che il bambino del secondo racconto osserva ipnotizzato: «Queste invece si muovono, sbattono una contro l’altra, vanno a finire sul muro. A quest’ora, qui a casa è come la fine di tutto l’universo».
Scioccante affermazione da parte di un fantolino. Chiaramente questo bambino, come altri più avanti, è una concrezione, rappresenta quel che di ignoto e di vagamente allarmante gli adulti percepiscono nell’infanzia, una fase troppo spesso dipinta a sole luci, ma nella quale sono ben presenti le tenebre.
La bambina di “Davanti al bosco”, per esempio, non vuole entrarvi non per la paura, ma per amor della paura, del suo diritto di averla: «Non ci voglio venire, disse gridando, lo so che dentro il bosco è bello, e lo so che ci sono le fragole e gli scoiattoli. Ma a me il bosco piace guardarlo da qui, quando ancora mette paura».
Si coglie in questo racconto come altrove in Piccole apocalissi il gusto per la chiusa che spiazza, ma anche il gusto per la creazione della situazione-limite, quella che costringe a uscire dal seminato, a ribaltare il senso comune. Ad accettare che non è tutto filato, e che anzi la maggior parte delle cose prospera e risplende proprio nello sbaglio, nella stranezza, nella non consequenzialità.
Tra le pagine appaiono e scompaiono figure come Meloscato, il demone delle deiezioni, La gatta proverbiale (costretta a comportarsi come recitano i detti popolari), il Sesto senso (che è quello di colpa), molta inquietante religione, una tremenda Epidemia che invade e divora man mano la città (sono i turisti).
Oppure, in “Nelle vuote stanze”, cose che «quando, di nuovo fuori, richiudiamo la serratura, ebbene lì dentro, nelle vuote stanze, quelle cose sono di nuovo infinite, di nuovo infinite».
Poi ci sono conflitti edipici – figli che bruciano le città dove da bambini passeggiavano coi padri –, storie d’amori impossibili tra la donna invisibile e l’uomo trasparente, o tra il ragazzo che guarda solo le nubi e la ragazza che guarda le radici dei fiori lì dove entrano più a fondo nel suolo; ci sono donne-farfalla, donne dagli occhi tanto grandi che potrebbero cader giù e perdersi per sempre tra il selciato, ci sono nomadi e vichinghi che traversano l’Europa (nella realtà? Sulla carta?), ci sono vecchi mulini che racchiudono l’ignoto e vecchie signore che sanno ancora guardare, anche da una panchina sperduta, come in “Porta Maggiore”.
«Notando che nemmeno mi aveva rivolto uno sguardo, le ho domandato indiscreto cosa ci fosse da guardare lassù, sulle rovine delle Mura. Osservi, mi ha detto con l’indice puntato, lì c’è l’esuberanza dei capperi fioriti; la tenacia di quel fico che cresce orizzontale, radicato alla siccità delle mura; la superbia violacea delle bocche di leone, che tendono al cielo. Se permette, io nel frattempo preferisco guardare lassù».
La sensazione è quella di scoperchiare uno scrigno di paure, di addentrarsi in un regno liminare di presenze inspiegabili che permangono giusto il tempo di turbare l’aria. La deformazione è decisamente nella materia narrata più che nell’occhio di chi la avvicina, eppure l’insolita scelta stilistica, di un buon italiano ornato di tratti arcaici, lieve e arguto ma anche didascalico, da cronista dell’orrido, dopo qualche pagina può indurre l’impressione che la deformazione sia in realtà una componente abbastanza inevitabile dell’esistenza umana.
E uno stile così sorvegliato, preciso, una lingua sbrigativa e colta dal sapore quasi medievaleggiante, non fa che amplificare l’idea che Piccole apocalissi sia un minuscolo labirinto retto da leggi ferree dentro il quale può palesarsi di tutto, pesante per la sua densità.
Il mio gusto personale va più verso i dialoghi da asciugamano di “Pietre” e “La lunga estate” che verso le legioni di diavoli di “Settembre s’adombrò d’un tratto”, e mi piace pensare che un autore che ha scritto una frase come «l’esuberanza dei capperi fioriti» possa regalare al lettore, se vuole, tutta una nuova gamma di suggestioni che trovano linfa nel mondo naturale, proprio come in Piccole apocalissi, questa volta, si sono nutrite di buio.
(Livio Santoro, Piccole apocalissi, Edicola, 2020, 88 pp., euro 11, articolo di Teodora Dominici)
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