Natalia Ginzburg: scrivere a bassa voce
A mo’ di omaggio
di Niccolò Amelii / 14 luglio 2020
Quella di Natalia Ginzburg è senza dubbio una delle voci più originali, anomale e inconfondibili del panorama letterario italiano del secondo Novecento. Allergica a etichette stringenti e spesso avvilenti e capace di sfuggire sempre alle mode e alle tendenze imposte dalle convenzioni formali del momento, dal milieu culturale d’appartenenza o dalle svolte storiche, Natalia Ginzburg ha scritto, nell’arco di una carriera pluridecennale, opere magistrali come Lessico Famigliare, Le piccole virtù, Caro Michele, che la certificano di diritto, se mai ce ne fosse ancora bisogno, tra le autrici più importanti e canonizzate dell’Italia del XXI secolo, insieme a Elsa Morante e Anna Maria Ortese. A lato e oltre la sua variegata, per quanto non estesa, produzione artistica – romanzi, racconti, pezzi di costume, saggi, pièces teatrali – ciò che ci sorprende e ci affascina oggi (si veda anche la riscoperta in atto al di là dell’oceano Atlantico, dove negli ultimi anni nuove e inedite traduzioni stanno interessando pubblico e critica) è il potere della sua prosa ipnotica, evocativa e ammaliatrice, priva d’enfasi o retorica, la qualità indiscutibile del suo fraseggio semplice e vigoroso, vigoroso perché semplice, quasi sillabato, l’impatto sonoro e musicale del suo timbro ritmico e contrappuntistico (Pavese lo definiva scherzosamente lagna Ginzburg), che promana solo dalla tessitura lessicale, dal periodo e non dalla struttura retrostante (talvolta mancante), dal concetto o dall’idea. Questo perché per la Ginzburg la scrittura è una vocazione primordiale, genetica, quasi ferina, che rifugge da eccessive razionalizzazioni o filtraggi teoretici.
Nella concordanza istintuale e immediata di pensiero e impulso scrittorio, il lessico disadorno, puntuale e rapido della Ginzburg restituisce con precisione millimetrica, assecondando una predisposizione ineguagliata per l’immagine espressiva, netta ma non icastica, il colore, il tratto e l’ordito di ciò che viene raccontato, persone, oggetti, situazioni, senza perdersi nella divagazione sterile della descrizione fine a sé stessa. Il registro piano, monocorde, apparentemente inscalfibile, che non cede a variazioni rapsodiche, siano esse innalzamenti aulici o abbassamenti dialettali e colloquiali, manifesta la sua creaturale propensione per il dettaglio a prima vista infimo e pulviscolare, che parlando di sé s’incarica però di parlare anche di tutto il resto. Proprio nel segreto intimo di questa preziosa attitudine si cela la grandezza della Ginzburg, la cui naturalezza dello scritto è emanazione veritiera, spontanea e genuina, non poeticamente determinata o ricercata, e dunque lontana anni luce dal patetismo/pietismo di buona parte del Neorealismo a lei coevo. La scrittrice torinese possiede di conseguenza il dono unico e assai raro di dire cose difficili mettendo al bando l’ambiguità o l’ermetismo, assegnando il massimo valore alla parola schietta, integra, semanticamente pregnante e perciò rivelatrice. Le sue opere sono infatti costellate da parole-mondo, che, galleggiando su di una superficie narrativa tendente al basso, intarsiata da una tristezza aprioristica e ineludibile, illuminano per un attimo l’universo circostante, perché in fondo la verità della letteratura è la verità del reale, il cui centro nevralgico, brutale e doloroso, può essere avvicinato solo attraverso fugaci bagliori di senso, tramite accostamenti repentini ed epifanici di conoscenza, subito dopo frustrati e rinnegati.
Entro il perimetro di una dialettica continuativa di repulsione e avvicinamento al magma informe e incandescente dell’esperienza umana, acquisisce spessore per logico contrappasso il canto dimesso dell’oggetto, la cui sublimazione poetica ne modifica la fisionomia sino a renderlo cristallizzazione immanente del passato, sua proiezione presente, a cui l’autrice si avvicina armata dell’amara consapevolezza della caducità del tempo. La scrittura della Ginzburg tende allora verso il livello minore, primogenito, dell’esistenza, quello meno acclamato e quindi decisivo, irradiante. La sua prosa, che si configura spesso come un ruvido impasto di fatti, incontri, dialoghi, ricordi, impressioni, è essenziale, ontologicamente essenziale, sorretta da uno stile sorvegliato, minuziosamente controllato, il cui apparente minimalismo non scade mai nella superficialità scialba e piatta che caratterizza di frequente le forme di narrazione dirette e banali tipiche della nostra contemporaneità.
Nei suoi testi la Ginzburg aggiunge per sottrazione, inseguendo il massimo grado di concisione e lucidità, a volte venato da stille di divertita e lirica malinconia, nel tentativo di sondare e auscultare la storia vera, quella posta all’ombra della Storia dei manuali, delle rievocazioni e degli anniversari, che scorre in profondità come un fiume carsico, di cui è possibile scorgere l’alveo solamente in corrispondenza di alcuni brevi pertugi nella roccia sottostante. All’interno dei suoi romanzi e dei suoi racconti, in cui l’io emerge in quanto io plurale in una perpetua e implicita tensione pronominale, la Ginzburg getta uno sguardo obliquo sulle cose della sua vita e del mondo, assestando la parola sul calco secondario dell’esperienza, quando l’impatto emozionale si è raffreddato e un leggero velo di moderata nostalgia si è frapposto nel mezzo. La quotidianità racchiusa dalla sua scrittura ha il potere di dipingere con lievità e chiarezza un autoritratto collettivo, in primis famigliare, che sfugge a ogni tipo di glorificazione retroattiva, in cui la voce narrante insegue l’anonimato, mimetizzandosi con i personaggi e gli eventi tratteggiati dallo stesso atto narrativo.
Nonostante l’utilizzo reiterato della prima persona singolare, declinata poi secondo differenti sfumature ma sempre fedele all’urgente espressione del sé e del reale, una delle peculiarità più evidenti della maestria autoriale della Ginzburg, sviluppata anche in virtù d’un modo d’essere e di relazionarsi che la caratterizza sin dall’infanzia, è proprio la capacità di porsi ai margini del racconto, di farsi da parte, per lasciare spazio alla rielaborazione romanzesca dell’affresco, di volta in volta diverso e paradossalmente uguale, d’una famiglia, d’una generazione di scrittori e intellettuali, di un fondamentale periodo storico del nostro Paese.
Grazie a un dispositivo testimoniale del tutto puro e sincero gli scritti di Natalia Ginzburg, che si tratti di fiction o non fiction, collocati sulla soglia frastagliata che divide realtà e finzione, sono immersioni dolenti e però piacevoli nel presente e nel passato di una vita che si relativizza e scinde sino al punto da diventare più vite, ritratte da un cantuccio appartato da una voce nitida e tersa. Dall’esplosione centripeta di squarci di memoria germogliano allora piccoli spazi di esistenza doppiamente vissuta, in cui la Ginzburg, sospinta da un istinto ancestrale per l’umana condivisione, tanto più sentito quanto meno ostentato, restituisce un corpo e una voce alle ombre prodotte dalla dimenticanza e dal ricordo, assegnando alla scrittura il potere taumaturgico di riassemblare volti, gesti, sguardi un tempo conosciuti, ammirati e amati. Ecco perché, in virtù di un credo innocente e salvifico, incorruttibile e incorreggibile, l’intera opera di Natalia Ginzburg, riflesso del sé nel mare del noi, è un atto di fede nel valore primario e rivelatore della letteratura.
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