Truman Capote: la verità come illusione
Un grande del Novecento
di Niccolò Amelii / 17 settembre 2020
Spesso ci si dimentica sbadatamente dei precursori e degli anticipatori. Ciò avviene per una parallela quanto convergente negligenza di pubblico e critica e accade frequentemente quando oggetto della discussione è la non-fiction, un genere letterario che sembra essere apparso nell’universo romanzesco, rimestando alla radice tassonomie ed etichette, come una meteora improvvisa e inaspettata, capace in pochi anni di conquistare sempre più lettori e attenzione teorica, in Italia soprattutto a partire dalla pubblicazione de L’avversario di Carrère (Einaudi, 2000) e di Gomorra di Saviano (Mondadori, 2006). Eppure, che venga più o meno riconosciuto, un capostipite certo di questa ramificazione narrativa, che tanto successo ha avuto nelle ultime due decadi, esiste ed è A sangue freddo di Truman Capote, primo fulgido esempio di romanzo non-fiction compiutamente riuscito, pubblicato da Garzanti nel 1966 dopo sette anni di assiduo e frenetico lavoro di scrittura e riscrittura.
A sangue freddo – storia del truce omicidio dei quattro membri della famiglia Cuttler, uccisi il 15 novembre 1959 nella loro casa di Holcomb (Kansas) da due giovani instabili da poco in libertà vigilata, Perry Edward Smith e Richard Hickock – rappresenta a tutti gli effetti un “romanzo-verità”, come amava definirlo lo stesso Capote, o meglio un pezzo di cronaca applicato alla letteratura, in cui l’autore si eclissa, arretrando al grado zero della narrazione, e lo sguardo oggettivo, documentale e distaccatamente giornalistico sostituisce l’impulso immaginifico e affabulatorio per lasciare spazio a una mise en scène iperrealistica e fattualmente veritiera, che risulta essere al contempo una lucida, acuta e precisa analisi patologica e psicologica dei due efferati assassini, frutto anche di un’ambigua fascinazione sviluppata dal romanziere per Perry Smith, a cui lo avvicinava una storia adolescenziale particolarmente affine – madre alcoolizzata, padre assente, difficoltà relazionali.
Tuttavia, oltre all’indiscutibile importanza di In Cold Blood (questo il titolo originale) come libro sperimentatore e antesignano e certamente gemma più rutilante della produzione, piuttosto esigua, del romanziere statunitense, Truman Capote va ampiamente riscoperto per l’alto valore intrinseco della sua intera opera, meritevole di essere rivalutata a prescindere dai miti e dalle leggende che irretiscono la sua turbolenta biografia.
E però è un compito davvero arduo, checché ne dicano formalisti e strutturalisti, tentare di scombinare il binomio vita-letteratura, specialmente quando si parla di Capote, uno scrittore che per gran parte della sua esistenza ha coltivato fino all’ossessione la sua immagine pubblica, ri-edificando a gran voce il mito del dandy metropolitano, amico di tutti e da tutti amato, all’insegna di un mantra semireligioso, di un voto inossidabile, per cui la verità non esiste se non come illusione.
Scrivere sulla soglia della vita
Tanto eccentrico e scalmanato nella sua vita personale quanto posato, levigato, sobrio nella sua prosa iridescente, caratterizzata da una forte vocazione visiva e dall’attenzione per il dettaglio cinematografico, in particolar modo nelle descrizioni fisiche e gestuali, Capote possiede uno stile chiaro, nitido, apparentemente piano, che, situandosi in estrema antitesi al flusso ritmico, sostenuto e studiatamente cadenzato dei beat, si fonda sulla ricercatezza formale e lessicale, su un registro elegante e un tono equilibrato.
Ossessionato dal credo flaubertiano del mot juste, dall’incastro fluido, perfetto e brillante delle parole, delle frasi, dei periodi, Capote opera con cura maniacale sul linguaggio, infiorettando e ricamando costantemente, sacrificando sull’altare di questo patto mefistofelico, a metà tra la maledizione e il sacro fuoco, il proprio demone interiore.
D’altronde, per un autore che predilige impianti romanzeschi classici (eccezion fatta in parte per A sangue freddo), l’importanza della narrazione, considerata eminentemente come manufatto artistico-estetico, supera di gran lunga l’afflato concettuale e poetico che è possibile adocchiare in tralice nel retrobottega del testo. L’invenzione è questione di forma più che di contenuto, sembra volerci suggerire, e la finzione non è che il risultato di velate trasparenze.
I suoi romanzi, i suoi racconti e i suoi reportage, dagli esordi giovanili (Incontro d’estate, Altre voci, altre stanze e L’arpa d’erba) pervasi dalle atmosfere gotiche tipiche della letteratura americana degli stati del Sud – basti pensare a Faulkner o a Flannery O’Connor – sino all’ultimo lavoro lasciato incompiuto (Preghiere esaudite), rivelano sempre, con maggior o minore intensità, persistenti tracce autobiografiche, perché Capote è innanzitutto un personaggio, fatto più per la letteratura che per la realtà e dunque divenire l’alter-ego o il controcanto umbratile dei suoi protagonisti non gli è solo congeniale, ma semplice e naturale. Il travaso è perfettamente genuino, logico.
Per questo motivo, sotto l’opaca lucentezza della materia diegetica, a cui Capote si dedica col talento compositivo proprio dei deus ex machina, si scorge di frequente una crepatura di sofferenza malcelata, trattenuta, un risvolto tragico che germina nel sottosuolo, accompagnato da una pulsione autocompiacente di morte e sofferenza che assottiglia la sua prosa, venata da stille di plastica e ariosa espressività, sino a renderla tesa come una corda di violino, che pare doversi spezzare dopo la fine di ogni lungo periodo o frase ben cesellata.
Capote può essere allora definito un erede fitzgeraldiano, anche se sprovvisto della carica generazionale di quest’ultimo, perché ha permeato le sue pagine dei fantasmi privati e pubblici che lo tormentavano senza sosta, utilizzando la letteratura fondamentalmente come uno specchio deformante e rivelatorio, una superficie acquosa che lascia intravedere latenti vulnerabilità al fondo delle sue cristalline increspature.
Fare luce sulle ombre
Di conseguenza, da ex enfant prodige ed epigono principale dei cantastorie del Sud, quando ha deciso di mettere a lato le sue verità, date in pasto a lettori affamati e irascibili troppo presto e troppo a lungo, per spiattellare le verità altrui nella limpida filigrana di Preghiere esaudite (e anche nei testi che compongono I cani abbaiano, seppur in tono minore), è stato inevitabilmente fatto a pezzi, trasformato nel giro di pochi mesi da cantore e arbiter elegantiae della nobiltà americana a “persona non gradita”, ostracizzato per aver osato l’impensabile: sporcare e incrinare l’immagine idealizzata della high society che lo circondava, mettendo alla berlina lo snobismo macchiettistico e autocelebrativo di divi e paladini e restituendo una fisionomia umana e quindi piena di falle e peccati ai cosiddetti “intoccabili”.
Abitato dalla folle e narcisistica idea di esorcizzare definitivamente gli spettri della sua triste infanzia sottomettendo la “crème de la crème”, odiata e amata con notevole dissimulazione sin dagli albori della scalata, al dominio della sua penna, Capote ha usato l’inchiostro come antidoto per il disincanto, medicina amara per sanare il disgusto che il bel mondo che gli aveva provocato, arma a doppio taglio per compiere una vendetta più che simbolica, archetipica: il genio maledetto che infanga la rispettabile nomea della cerchia che lo ha calorosamente adottato per affermare il proprio potere artistico, la differenza fondativa, lo scarto irriducibile e supremo, anche se ciò significa rinunciare a ogni cosa, mettere in soffitta antiche velleità di trionfo e celebrità e scampoli di sane relazioni interpersonali.
Nella doppia veste, che si rivela ben presto insostenibile, di favorito e fustigatore, lo scrittore nato a Monroeville, Alabama, ha cercato di indagare in Preghiere esaudite – opera che secondo Capote doveva configurarsi come rivisitazione americana e tardonovecentesca della Recherche di Proust e che invece rimarrà incompiuta – le tenebre del microcosmo più sfarzoso e accecante che ci sia, scolpendone i moti fatui, gli appetiti voraci, gli umori scostanti, mostrando sottopelle il nero vuoto che si nasconde dietro le facciate dorate dello star system, dei salotti buoni e dell’aristocrazia europea.
Capote aveva concepito Preghiere esaudite (che uscì in America postumo, ma i cui tre capitoli costitutivi erano stati anticipatamente pubblicati sulla rivista Esquire tra il ’75 e il ’76) come un grande ritratto corale e memorialistico, un affresco caustico, mordace, al vetriolo, dell’alta società newyorchese, in cui passare al setaccio i segreti, spesso immorali e inconcepibili, che si annidano alla base di ogni ricchezza.
Nonostante il romanzo sia rimasto ampiamente monco, i frammenti che ne formano l’ossatura oggi leggibile sono infatti composti da un malizioso tourbillon di dicerie, pettegolezzi e cicaleccio rivestito ad arte tanto da divenire arte a tutti gli effetti. Libro oltremodo notevole che, al di là del vituperio mutato in succosa cronaca bizantina, dimostra una riuscita estremizzazione romanzesca (è presente una lieve alterazione dei nomi dei personaggi coinvolti nel narrato) dell’aspetto più propriamente non-fiction della materia modellata, ancor più che in A sangue freddo, perché stavolta il fenomeno non è legato saldamente alla contingenza eccezionale di un caso giudiziario feroce e assurdo, ma al semplice fluire quotidiano e perfettamente veritiero di esistenze sempre identiche a sé stesse. La realtà assume dunque spessore, colore, s’arricchisce di ulteriori sfumature di senso proprio in virtù della carica romanzesca e trasformativa che la innerva, la rimpingua e la sublima.
Bastarono i brani usciti su Esquire per inimicarsi rapidamente, a causa di un eccesso di hybris o di un’inspiegabile ingenuità, buona parte di coloro che gli avevano permesso un’ascesa sociale incredibile e innaturale. Parabola umana e letteraria in fin dei conti non molto sorprendente per uno uomo che si è costantemente esercitato lungo l’intero arco della sua vita nella raffinata arte dell’autodistruzione, alternando momenti di relativa quiete a periodi di smodata accelerazione, per essere infine soverchiato dalla macchina, fortunatamente a corta gittata, dell’oblio.
Ripescato giustamente dalla densa foschia della dimenticanza, Capote è uno scrittore la cui prosa restituisce a pieno il piacere della lettura come puro arricchimento estetico e sommo godimento artistico, cosa che succede assai di rado. Merita perciò, tenendo finalmente a margine la fama ondivaga, gli eccessi, le contraddizioni, di essere ricollocato in maniera stabile nel posto che gli spetta di diritto, tra i grandi del Novecento.
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