Funghi
di Chiara Bertora / 24 settembre 2020
Irene tira fuori una pila di piatti fondi e li sistema accanto a un’enorme ciotola, dentro cui quel che resta di una lepre sta marinando in un bagno di Barbera e bacche di ginepro.
«Ora vai a preparare la sala», le dice la madre, senza alzare gli occhi dal soffritto di cipolle bionde, sedano e carote.
È sabato mattina, il sole ancora caldo di fine settembre promette almeno quaranta coperti. Non sono ancora le nove e il vecchio ristorante odora già di aceto e brodo di carne. Irene odia svegliarsi con la stanza invasa dai vapori dei fagiolini messi nella pentola a lessare prima delle sette.
I libri restano chiusi nello zaino: non c’è tempo per studiare filosofia in un fine settimana di bel tempo. Bisogna scendere in fretta dal letto, persino un po’ prima dei giorni di scuola, come se ci fosse da prendere il bus che passa alle sei e cinquanta, con l’autista arrabbiato con la vita che non aspetta nessuno.
Da quando sono rimaste solo lei e sua mamma, giù al ristorante deve darsi da fare il doppio, e Anassimene di Mileto può aspettare. La filosofia a scuola l’hanno appena cominciata, ma Irene ha già capito che le piace. A Irene piace la gente che cerca risposte a domande gigantesche. Invece detesta chi vede il sole al mattino e carica sulla macchina valige e bambini per fare trecentocinquanta chilometri e mettersi a mollo in mare per mezza giornata. Mentre dispone i piatti sui tavoli, vede il traffico già aumentato sulla statale attraverso le tende di velo color pesca della sala. Macchine familiari stipate di canzoni per bambini e battibecchi di adulti sfrecciano in quel tratto di paesi di poche anime e campi di fagioli. Sono diretti a ponente e, per risparmiare un po’ di euro e di coda in autostrada, passano per il colle e ancor prima di qui. I più ritardatari saranno da queste parti tra qualche ora e, buttando l’occhio in giro, decideranno di fermarsi a pranzare lungo la strada. Qualcuno mangerà nel loro ristorante. Le donne non si toglieranno gli occhiali da sole, entrando guarderanno con un leggero disgusto le sedie scelte da sua nonna nel mobilificio di Garessio. Le ha pagate ventimila lire l’una, nel 1972. Hanno la seduta morbida di pelle scura, non se n’è tagliata nemmeno una. Ogni tanto Irene sfoglia il sito dell’IKEA, dove non è mai stata, sogna di comprare nuove sedie di legno chiarissimo, di coprire le pareti di stucco veneziano con un bianco svedese, di riempire la sala di quadri con pietre e getti di bambù, anziché le vecchie foto dei bisnonni che raccolgono castagne.
Le donne si siederanno, chiederanno per sé un’insalatina leggera e apprenderanno con una smorfia che di contorno hanno solo fagiolini al burro o crauti. Opteranno per i fagiolini e del petto di pollo ai ferri. Se ne andranno e non torneranno più. Prima di andarsene porteranno via una confezione di fagioli secchi coltivati dietro al ristorante da suo zio, quelli che tengono in bella vista vicino alla cassa. Un sabato di maggio, una donna di passaggio con gli occhialoni da sole e una coda di cavallo stretta dietro alla testa è tornata e si è portata via suo padre, senza nemmeno comprarsi i fagioli.
«Che stronzo», dice scrollando la testa, mentre posa i tovaglioli di fiandra ai lati di ciascun piatto.
Gli avventori uomini, insieme alle donne anziane, sono più curiosi, vogliono sentire l’intero menù. Si lasciano tentare dagli antipasti sott’olio, osano con gli agnolotti e il civet. Chiedono: «E i funghi ci sono?» in qualsiasi stagione. Vogliono i funghi a luglio, ad agosto, a gennaio. È proprio quando pronunciano quella domanda: «E i funghi ci sono?» che lei realizza di disprezzarli. Come forma di protesta silenziosa per quelle invasioni del sabato mattina, Irene ha preso a rispondere sorridendo: «No, mi spiace, non ci sono». A volte è vero, a volte no. Nei giorni in cui suo zio ne ha trovati e sua madre li ha fritti, lei entra coi vassoi pieni in sala, ma li serve solo agli avventori del posto, in porzioni generose. Poi riporta i vassoi vuoti in cucina e la madre non si accorge di quella piccola forma di resistenza. Quanto ai vacanzieri di passaggio, la maggior parte non fa osservazioni. A quelli che avanzano pretese, lei risponde alzando le spalle con aria innocente e pregandoli di prenotare, la volta successiva. Ma tanto non tornano mica.
Solo una volta una famiglia di Fossano ha chiamato un venerdì per prenotare i funghi. Ha risposto suo padre, così l’ha scoperta. Si è arrabbiato, l’ha minacciata di non farla andare più a scuola. Non è che avesse molto altro da toglierle. A sua madre non l’ha detto, anche quella è rimasta un’intimidazione, che si è smaterializzata insieme a lui sul lato passeggeri di un Lancia Ypsilon viola melanzana, un sabato di maggio che persino pioveva.
Irene torna in cucina con un piccolo vassoio a ruote per prendere ottanta bicchieri, due per ogni coperto, stessa foggia taglie diverse. Sua madre, i capelli nascosti sotto una cuffietta bianca, piange mentre governa l’arrosto. Piange piano, non fa rumore. Irene glielo vede fare spesso da quando suo padre è andato a vivere a Mondovì con quella signora e i suoi due figli adolescenti, ma non sa bene che cosa dirle. Allora finge di non accorgersene.
«Ma’, va bene se oggi metto solo un bicchiere, così finiamo prima di lavare?»
«No, tesoro, mettine due, che poi la gente se ne va scontenta», dice, tirando su col naso, «poi non torna, dobbiamo chiudere e io non so fare nient’altro».
«Che palle, Ma’», dice secca, ed esce subito dalla cucina.
Sente che sua madre sta per cominciare uno di quei discorsi in cui usa un sacco di Oh bambina mia e ripete che non c’è motivo di essere arrabbiati con la gente di città che se ne va al mare, che ognuno ha un posto che è casa e un modo per vivere, che questo è il loro ed è un bel posto ed è un bel modo. Irene non vuole starsene di nuovo lì zitta ad ascoltarla senza poterle dire che no, non è per niente d’accordo. Non vuole contrariarla, non vuole vederla piangere più di così, ha paura che l’acqua le esca tutta e poi le cellule collassino e lei non sia più capace di alzarsi in piedi. Morta di pianto. Non se la sente di essere orfana.
Irene non pensa affatto che il loro sia un bel posto e un bel modo, ma non lo dice a sua madre. Quello che fa per manifestarlo senza dirlo è negare i funghi agli avventori. Irene vorrebbe andare al mare il sabato mattina, vorrebbe svegliarsi sentendo il profumo del cuscino o della colazione, non del pranzo di qualcun altro. A Irene, oggi, basterebbe che Daniele si fermasse a pranzo al ristorante.
È da questa primavera che ci pensa. Sul diario scriveva: 23 aprile, forse ho capito com’è quando ci si sente folgorati. Scrive al massimo un paio di frasi ogni giorno. Non lo fa la sera, ma ogni mattina dopo averci dormito su. Non usa mai parole scontate, non le piacciono. Quando ha scritto folgorati intendeva innamorati, ma è una di quelle parole che ritiene che una come lei non debba usare.
Sul diario ha scritto: 30 maggio, so come si chiama, lo spio sui social senza contattarlo, sono un’idiota.
«Affetta il pane», le ordina la madre, che sta preparando la pastella con cui friggerà i funghi, «poi vieni qui, oggi li friggi tu».
«Ma’, che dici? Non li so fare», protesta Irene, sorpresa.
«Sì che li sai fare, li facevi con nonna Zina».
«Avevo sette anni».
«Dai, su, non ho tempo di discutere, sbrigati».
Irene si stringe dentro alla felpa granata un po’ deformata, infila la testa dentro al cappuccio, esce sul retro a recuperare i sacchi di pane. Dà un’occhiata al cellulare, sa da un social che Daniele oggi andrà nella casa al mare dei suoi nonni. Spera si fermi, ma odia che lui la veda di nuovo lì a servire ai tavoli, odia sapere che di lei sentirà odore di funghi fritti. Odia che lui non sappia che a lei piace la filosofia. Odia che lui non sappia che lei vorrebbe suonare il violoncello, che guarda degli stupidi tutorial la sera prima di coricarsi e suona una sagoma di cartone che tiene nell’armadio. Odia il fatto di pensare spesso a lui sapendo che lui conosce a malapena il suo nome.
28 luglio, è passato al ritorno, si sono fermati per una birra, ma mia madre a lui che guidava ha dato solo un caffè. Mi ha chiesto cosa sto leggendo. Anna Karenina, ho risposto. Ha occhi blu, puliti, credo che Levin li avesse così.
«Condisco i tomini?», chiede alla mamma, che ha il viso inondato dalle sue lacrime silenziose mentre affetta i porcini. Non si prende nemmeno più la briga di asciugarsele via, le gocce prendono le vie naturali del viso per ricadere sul grembiule spesso.
«No, friggi i funghi».
«Dai, no».
«Friggili».
Irene riunisce i capelli in una crocchia irregolare e si mette al lavoro. Fetta, uovo, pangrattato, olio caldo, carta assorbente, vassoio. Nuova fetta, uovo, pangrattato, olio caldo, carta assorbente, vassoio. Una cantilena che riempie cinque vassoi. Li sistema nel forno acceso a ottanta gradi per tenerli in caldo. Non sono ancora le undici e il pranzo è pronto per almeno quaranta persone.
Irene sale nel piccolo appartamento al piano di sopra, vuole lavarsi i capelli per togliersi l’odore di unto che hanno assorbito. Ha detto alla madre che sarebbe andata a recuperare delle olive taggiasche nel cucinino, ma entra nella doccia. Passa la lametta nell’incavo delle ascelle e sui polpacci. Sogna che Daniele la porti al mare con lui e i suoi amici. Sa che è impossibile, è per quello che non osa confessarselo.
Esce dalla doccia, si arrotola un asciugamano intorno ai lunghi capelli ricci. Non vuole accendere l’asciugacapelli, se no la madre quando scende le chiederà perché si è lavata proprio ora e non le va di raccontarle nulla. Le madri vedono sempre cose da raccontare anche quando non c’è niente da dire. Arriva una notifica sul cellulare: «Come stai?». È suo padre, che non si è mai accertato che stesse bene o male in tutta la sua vita e ora lo fa via etere. Impostazioni, audio, modalità silenziosa senza vibrazione. Si infila i jeans e una maglietta pulita, raccoglie i capelli in uno chignon stretto.
«Aiutami col tiramisù», le dice la madre non appena è nuovamente a portata di sguardo.
«Ma’, vorrei studiare un po’ prima che arrivino tutti».
«Va bene», risponde la mamma, concentrata sulla geometria dei savoiardi nella teglia di ceramica a fiorellini.
Irene fa per andarsene, ma le prende una strana tenerezza, che la fa fermare.
«Dai, spostati: li bagni di lacrime invece che di caffè», le dice con un tono gentile che non usa mai con nessuno. Forse col gatto.
La mamma si pulisce le mani in uno strofinaccio, appoggia lo sguardo su un punto imprecisato della parete, tra la finestra e il quadro della Madonna.
«La vuoi smettere di pensare a lui? Non ti ha mai portata al mare in diciannove anni: non ci si fida di uno che non ti porta al mare».
La mamma annuisce, le si mette accanto sfiorandole un fianco, comincia a spalmare la malta del mascarpone per dare forza al muraglione di savoiardi.
È strano stare così vicine, chine sulla stessa teglia, strano che quella vicinanza oggi non le dia fastidio.
Sul diario, qualche settimana fa, ha scritto: 23 agosto, Daniele ha detto che per un po’ non passerà più. Studia per l’ammissione all’università, Fisica. Anche io all’università voglio andare a vivere a Torino. Quanto in fretta possono passare questi tre anni?
«Preparati, tra poco arriva la gente», le dice la madre.
Irene si allaccia un grembiule corto blu notte, di quelli che ha visto una volta in una vineria di Ceva. Se l’è cucito lei con la vecchia macchina di nonna Zina. Sale nell’appartamento, si è ricordata che c’è da dare da mangiare a Mirtilla. La trova sulla piccola poltrona di stoffa accanto al suo letto. Sul tavolo c’è il suo cellulare. Riattiva, inserisci la sequenza, notifiche, papà: «Non fare la stronza, servi i funghi».
«Ma vaffanculo» dice ad alta voce. Mirtilla si sveglia, stira le zampe davanti, arcua il dorso, si avvia verso la ciotola nel cucinino. Irene intercetta la sua traiettoria, la prende e se la porta al petto, infila il naso nel suo pelo morbido. È calda, sente il piccolo cuore tamburellare sotto le dita. È l’unico essere vivente con cui parla liberamente negli ultimi tempi.
«Dai, vieni che ti do due crocchine» si rivolge al gatto con quella voce dolce che riserva alle creature che considera più vulnerabili di lei. Si siede sul pavimento accanto a lei, la guarda sgranocchiare rapidamente il suo spuntino.
«Come fai a stare dentro questa casa tutto il giorno? Non ti viene voglia di andartene, anche solo per curiosità?», le chiede.
Sul diario ha scritto: 8 settembre, giornata terribile. Sono quattro mesi che lui se n’è andato, lei e io da sole. Mi pareva stesse meglio e invece s’è dimenticata di preparare i dolci. Facevamo meglio a scrivere “chiuso per lutto”, anzi “chiuso per abbandono”. È passato Daniele con un’amica bionda. Lei mi ha detto di chiamarsi Elisa. Lui non mi ha parlato. La fisica mi fa schifo, non è per niente vero che è un altro modo per rispondere alle stesse domande. Non c’è niente di più diverso dalla filosofia.
Sente un’auto fermarsi in cortile. Si alza di scatto, scende in fretta le scale. Sa che il suo posto per le prossime tre ore sarà tra la cucina e la sala, sa che non dovrà fare altro che obbedire. Si ferma un’altra auto, poi un’altra, un’altra ancora. Il piccolo parcheggio e la sala si riempiono rapidamente, all’una i tavoli sono quasi tutti pieni. Irene passa con gli antipasti, ne versa con mano inaffidabile nei piatti di chi glieli ha ordinati. È facile per le pietanze che si possono servire a pezzi: due tomini, tre fette di salame. Ma quando tocca all’insalata russa, quant’è grande un cucchiaio? Ogni porzione la fa diversa, ma non c’è nessun altro che lo può fare meglio di lei. Non c’è nessun altro che lo può fare al posto suo. Lo fa e basta, senza pensare, la rabbia e la paura ben schiacciate tra i molari.
Sul diario, ieri ha scritto: 22 settembre: gli ho mandato un messaggio. Gli ho scritto che quando passa per andare al mare, voglio che mi dia un passaggio per andarci anche io. E se non passa? E se mi ci porta sul serio, poi che ci faccio? Che deficiente che sono.
Ripete a memoria, tavolo per tavolo, i primi: agnolotti al ragù, risotto alla salsiccia, minestrone di verdure, pasta in bianco per i bimbi. Tiene a mente diligentemente ogni scelta, sorride solo ai bambini. Riferisce a sua madre il numero di porzioni e poi torna con mani e avambracci pieni di piatti caldi e pieni. In quell’equilibrismo è diventata brava nelle settimane. Non ha mai fatto un solo giorno di festa, un solo bagno al mare, quest’estate, ma è diventata esperta a non far cadere nessun piatto a terra. Ha scoperto che basta concentrare lo sguardo su un punto preciso e lei, in genere, fissa un agnolotto – gli agnolotti sono una portata fissa nel loro ristorante. Non uno qualsiasi, un agnolotto specifico, perimetrale, disposto allo zenit del piatto che porta nella mano sinistra.
Tornando a mani vuote verso la cucina, sfila il cellulare dalla tasca del grembiule corto. Due messaggi. Papà: «Lo so che leggi, fallo per la mamma, servili». Daniele: «Con Elisa abbiamo fatto tardi, oggi non passiamo. Buon weekend».
Sul diario, domattina, scriverà: 24 settembre: ho buttato i funghi nel bagno di casa. Ho preso il pullman e sono venuta al mare, ho dormito in spiaggia. I miei capelli sanno di salsedine.
Chiara Bertora è nata a Tortona nel 1980, ma vive da sempre a Collegno, la città dello Smemorato, sentendosi torinese nel profondo. Ha lavorato a lungo nell’ambito della ricerca scientifica e, dopo diversi anni, si accinge a imbarcarsi in una nuova avventura professionale. Ha pubblicato racconti su Carie, DieciCento e Risme, e ha contribuito con un racconto all’iniziativa “Come Salmoni” dell’agenzia editoriale Lorem Ipsum. Dal 2015 scrive il blog Erodaria e dall’anno scorso è alle prese con la stesura del suo primo romanzo.
Editing del racconto a cura di Daria De Pascale
Fonte immagine: Christine Siracusa su Unsplash
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