L’effimera ritualità della politica
“Finzioni politiche” di Joan Didion
di Elisa Carrara / 2 novembre 2020
La politica statunitense è fatta di ombre, di percezioni, più o meno esatte, e di storie, più o meno convincenti. Non ci mise molto Joan Didion a capirlo: il tempo di accettare l’incarico della New York Review of Books e di partire per la campagna presidenziale del 1988. Un fatto insolito per una giornalista che, fino ad allora, non si era interessata alle elezioni: a tenerla lontana non era stata l’arrendevole indifferenza alla cosa pubblica, bensì l’intuizione di trovarsi di fronte a una serie di liturgie ingannevoli e di parole irreparabili. Era davvero così. E per Joan Didion si trattò solo di affinare il suo talento: osservare, indagare e poi indugiare sul confine delle cose.
Finzioni politiche (Il Saggiatore, 2020) è un libro complesso, che appare, come quasi tutte le opere della Didion, falsamente rassicurante: si presenta come una semplice raccolta di saggi, in ordine cronologico, dal 1988 al 2000. C’è una dedica, bella e breve, a suo marito John Gregory Dunne. E una premessa, asciutta, in cui la Didion spiega tutto ciò che ritiene necessario dire sui suoi incontri con il mondo politico. L’edizione italiana rispetta la scelta minimalista, rinunciando a qualche ancoraggio paratestuale, che aiuterebbe il lettore a orientarsi tra dinamiche macchinose, eventi lontani e personaggi dimenticati o semisconosciuti. Il resto, infatti, è riservato solo alle sue parole, affilate e rigorose: otto capitoli in cui ci si immerge nella politica statunitense. Quella vera, accecata dall’ingannevole logica bipartitica e tenacemente radicata nel territorio; viziata dall’individualismo e dalle storie ben raccontate.
«Forse, tra le narrazioni dalle quali deriva il sistema politico, la più persistente è quella per cui ai cittadini della nazione viene offerta una “scelta” della quale non sembrano capire il valore». La Didion non si accontenta di osservare: rinuncia alla polemica e si allontana dall’analisi politica: esamina libri, inchieste, articoli e campagne elettorali; intervista membri dello staff, ripercorre gli avvenimenti, decostruisce, svela cosa si nasconde dietro la macchina da presa. Perché la politica condivide con l’illusione cinematografica la capacità di rendere semplici cose difficili.
La giornata da presidente di Ronald Reagan, racconta la Didion, iniziava alle nove, quando sulla scrivania trovava l’orario con gli appuntamenti della giornata: «alle dieci, in assenza di un conflitto urgente era programmata un’ora di pausa» in cui rispondeva ai cittadini e ritagliava giornali. Per ricordare i compleanni dei membri del suo staff aveva un’agenda: non conosceva neppure i nomi di quelle persone, ma il copione esigeva la scena dello scambio dei doni, e del ringraziamento da parte del festeggiato. La metodica ritualità kantiana di Reagan, ricorda che nulla è lasciato al caso: sul grande palcoscenico della politica, sono i ruoli ad avere la meglio, a precedere e spesso capovolgere il destino di un uomo. È il caso di Reagan, la cui narrazione affondava le radici nel mito dell’uomo impegnato, attivo, che aveva costruito da solo il suo mondo, al punto da rinunciare per sempre alle lusinghe di Hollywood. La realtà, spiega Joan Didion, era ben diversa: le giornate scandite e accuratamente preparate, l’immagine di rappresentanza, lo scarso potere decisionale e l’ombra di una carriera cinematografica lontana e fragile.
È il caso di Clinton, il candidato «con diversi vezzi e atteggiamenti regionali, residuo di una cultura che dava ancora grande valore allo sport, all’assunzione di responsabilità, al flirtare con certe donne pur idealizzandone altre». Una mentalità, ci avverte la Didion, «spesso ricercata più che ereditata». Il candidato Clinton, figlio di un commesso viaggiatore, ricercava i voti dell’«americano medio», l’espressione salvifica in grado di comprimere in due parole un’intera classe sociale e di non spaventare i repubblicani moderati. La classe media fa sempre meno paura dei poveri. Semplificare, usare le parole giuste, richiamare valori e non singole realtà sociali: così Clinton fece breccia nel cuore degli americani. Ma quando la situazione sfuggì di mano, la retorica del buon venditore venne stravolta: entrarono in scena nuovi personaggi, come il procuratore Kenneth Starr «alla ricerca di quella che Melville chiamava la somma verità»; i testimoni che interpretarono a più riprese il ruolo di vittime o di carnefici; la stampa, creatura mitica in cerca di giustizia. Joan Didion in questo caso dà il meglio di sé, svelando anche le debolezze di un giornalismo ossessionato dalla verità e dalla ricerca delle fonti, ma non immune da colpe (come nel caso di Bob Woodward sull’affare Clinton).
In Finzioni politiche, Joan Didion rinuncia all’analisi politica e si affida al potere e al fascino della narrazione per ricordarci che talvolta le scelte sono false scelte.
(Joan Didion, Finzioni politiche, trad. di Sara Sullam, Il Saggiatore, 2020, 288 pp., euro 23, articolo di Elisa Carrara)
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