L’ultimo appuntamento con Kent Haruf

“La strada di casa” di Kent Haruf

di / 9 novembre 2020

Copertina di La strada di casa di Haruf

Holt non avrà più storie da raccontarci. E nemmeno il suo narratore. Dopo l’uscita dell’ultima traduzione in Italia, La strada di casa, NNEditore ha completato la pubblicazione dell’opera di Kent Haruf. Non pochi appassionati si saranno senz’altro commossi a leggere le ultime righe di un autore che, sebbene molto in ritardo (e soltanto dopo la sua morte), ha suscitato nel nostro paese un evidente successo di pubblico, consacrando l’esordiente casa editrice, che lo ha portato in Italia nel 2014 (anno di scomparsa di Kent Haruf) a eguagliare il colpaccio che fu di Giangiacomo Feltrinelli con la pubblicazione postuma di Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

La strada di casa, secondo romanzo in ordine di scrittura (uscito in America nel 1990), arriva per ultimo nelle nostre librerie, dopo Vincoli, che fu il primo romanzo di Haruf, e Le nostre anime di notte, consacrato al grande schermo nel film omonimo con protagonisti Robert Redford e Jane Fonda. Ma è con la trilogia di Holt, e soprattutto con il primo volume Canto della pianura, che Kent Haruf raggiunse in America (nel 1999, alla veneranda età di 56 anni) quella notorietà che anche in Italia è arrivata (sebbene postuma) quando la NNEditore scoprì un autore straordinario, tradotto sicuramente troppo tardi rispetto a quanto avrebbe meritato.

La sua prosa, paragonata da alcuni a quella di Ernest Hemingway per la sua pulizia, segue (almeno idealmente) quanto iniziato da William Faulkner con la simbolica provincia di Yoknapatawpha: tutti i romanzi di Kent Haruf sono, infatti, ambientati nell’immaginaria contea di Holt, le cui appassionate descrizioni hanno ispirato alla NNEditore una mappa e una riproduzione dei luoghi simbolo (un po’ alla Signore degli anelli, ma senza personaggi fantastici o battaglie epiche).

Al centro di La strada di casa c’è il personaggio brillante che delude, l’uomo seducente che diventa il protagonista di un disinganno, nel quale quello che luccica non è oro. Se Jack Burdette è il narciso che nasconde il malaffare, Pat Arbuckle è il narratore che di soppiatto entra nella vita di Jessie Miller, dimostrando come l’equilibrio e la finta mediocrità possano rappresentare doti fondamentali nel conquistare la fiducia di una donna, abbandonata dal seduttore incallito, ma mai succube del suo potere ammaliatore. «La gente di Holt pensava che a quel punto avrebbe pianto. Immagino fosse quello che volevano. Ma lei non lo fece. Forse aveva oltrepassato il punto in cui le lacrime di un essere umano hanno un senso, difatti girò la testa, chiuse gli occhi e dopo un po’ si addormentò».

In fondo, il romanzo racconta di un triangolo sentimentale: il bello che scappa, l’amico che non delude, la donna che scopre il calore vero di una famiglia. Sullo sfondo il tema della giustizia, quella che arresta gli imbroglioni, e quella che intreccia i sentimenti, facendo dei legami non di sangue una delle fissazioni di Kent Haruf. Non è un caso, infatti, che in tutti i suoi romanzi nascano, e si rafforzino, rapporti costruiti sui sentimenti, e non sui semplici obblighi di parentela. Ci sono persone che si scelgono, e donne che reagiscono ai dolori improvvisi senza mezze misure, come Jessie, che da sola e con due figli riesce in quello che molti nella contea di Holt avrebbero creduto impensabile: non scappare.

«Ancora oggi non so bene perché. Penso che la maggior parte di noi non sarebbe rimasta nemmeno una settimana, se avesse ritenuto di avere un’alternativa qualsiasi. Ma forse era proprio quello il punto: lei era convinta di non avere un altro posto dove andare». Non è un caso, allora, che il titolo originale del romanzo sia Where you once belonged, il luogo al quale una volta appartenevi, che è il luogo dove torna Jack per riprendersi ciò che gli appartiene, ma che è il luogo al quale Jessie sente di essere legata, e probabilmente sarà anche il luogo dove rimane Pat, col fiato sospeso in un finale aperto (cosa mai più accaduta nei romanzi di Haruf).

È strano che, in un mercato editoriale come il nostro nel quale vanno alla grande le saghe in giallo di commissari e detective, un autore come Kent Haruf abbia avuto un tale successo di pubblico. Lui che di misteri non se ne intendeva, tanto che le sue storie sembrano addirittura troppo semplici, e sicuramente poco avvezze al racconto del male violento. I personaggi che abitano Holt, la cittadina immaginaria del Colorado orientale, sono persone semplici, più inclini a quei sentimenti concreti che animano la quotidianità di uno sperduto paesino di provincia: il rapporto con la propria vecchiaia, e quella degli altri; il divario tra giovani e adulti, o tra genitori e figli; il desiderio di creare dei legami che legano, al di là delle parentele di sangue. Sua moglie scrisse: «Kent non aveva paura di osservare gli aspetti più oscuri della natura umana; non giudicava i personaggi, ma ne vedeva le ferite, la lotta contro la loro stessa umanità. Li amava tutti, e il senso delle sue storie emergeva proprio dalle loro interazioni. Le descriveva in maniera semplice e diretta, senza prediche o giustificazioni; credo che questo sia il motivo per cui i suoi libri hanno commosso e commuovono così tante persone».

E nel tentativo, riuscitissimo, di raccontare i sogni (e le paure) di molti americani degli anni Novanta, anche la natura concorre a fare di Holt un luogo di cui sentiremo sicuramente nostalgia, con le sue tinte semplici e chiare, tipiche della scrittura di Haruf. Ad esempio, presi nella lettura di Vincoli (il secondo romanzo dell’autore americano, uscito in Italia lo scorso anno), ci si potrebbe ritrovare addirittura a mungere una mucca, con «la lurida coda che ti frusta di continuo» e tu che «fai i fioretti più impossibili, tutto pur di riuscire a mungerla senza dover sentire il sapore di quella cosa putrida e disgustosa»; quando credi che tutto stia andando per il meglio ecco che «ti arriva una frustata, tutto quanto, sangue e merda e muco e incredibile umiliazione in piena faccia. Ti copre gli occhi, il naso, la bocca. Ne senti persino un po’ che ti cola sulla nuca. Oddio, aiutatemi. Figlia di puttana. A quel punto non ce la fai più: vomiti, ti vomiti addosso, vomiti addosso a quella mucca maledetta, vomiti nel secchio del latte. Vai avanti finché non hai solo dei conati di bile acida, ti fa male lo stomaco e boccheggi».

(Kent Haruf, La strada di casa, trad. di Fabio Cremonesi, NNEditore, 2020, 192 pp., euro 18, articolo di Elisa Scaringi)

 

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