Che fine hanno fatto gli hillbilly?
Su “Elegia americana” di Ron Howard
di Elisa Scaringi / 4 dicembre 2020
Il nuovo film di Ron Howard (uscito solo nelle sale cinematografiche statunitensi, e distribuito globalmente sulla piattaforma Netflix), delude la critica. Elegia americana non riesce a essere originale: nonostante un uso molto scorrevole del flashback, la trama procede senza troppi colpi di scena. Fin dalle prime battute, la storia non aggiunge nulla a quanto già fatto in altri prodotti, soprattutto televisivi: il sogno americano può essere a portata di tutti. Eppure, il libro da cui Ron Howard ha preso ispirazione (James David Vance, Elegia americana, pubblicato in Italia da Garzanti) non è passato inosservato negli USA, raggiungendo la vetta dei best seller per ben due anni consecutivi (2016-2017).
Scritta quando aveva trent’anni, e stampata inizialmente con una tiratura limitata, la confessione autobiografica di Vance ha suscitato scalpore e interesse per via di quegli hillbilly (relitti bianchi del Midwest, tra cui i nonni dell’autore), che nella trama del film sono per lo più assenti. Tranne una scena in cui il protagonista esplicita chiaramente le sue origini, Elegia americana mette al centro un trio di personaggi che non lascia spazio ad altro: una nonna, una madre e un figlio.
Anche il titolo italiano dato al film (che traduce “hillbilly” con il più generico “americana”) sottolinea questo scostamento della pellicola rispetto al libro: non si tratta più di una confessione coinvolgente intorno alla vita e ai drammi umani dei monti Appalachi (dove Vance è nato e cresciuto), ma di una retorica esibizione del sogno americano.
In Elegia americana manca totalmente quella sfumatura di discriminazione che ancora oggi subiscono gli abitanti di questa zona (nel nord-est degli Stati Uniti), visti da molti connazionali come ignoranti e poco raffinati, soprannominati “hillbilly”, “redneck”, “white trash”. Le montagne compaiono solo nei primi minuti, relegate a fare da introduzione estiva a una storia personale che dimentica il contesto: un proletariato diventato “spazzatura bianca”. Si tratta di film diversi, ma manca completamente la potenza di titoli come Un sogno chiamato Florida, o Louisiana – The Other Side.
Anche la tematica della tossicodipendenza (con numeri in costante aumento tra i bianchi americani che vivono ai margini), sembra quasi un ostacolo facilmente superabile. Laddove avrebbe dovuto avere maggior spazio la caratterizzazione dei bianchi hillbilly, ciò che predomina invece nel film è il sentimento di riscatto del protagonista, che lotta inconsciamente contro una madre troppo instabile.
Sicuramente le due attrici protagoniste tirano su la pellicola (Amy Adams e Glenn Close), nascondendo totalmente la mano di un Ron Howard troppo debole, che punta sul sicuro, senza rischiare con le sfumature di una storia vera, che avrebbero potuto suscitare critiche dal mondo politico. Anche se nel libro non compaiono né Trump né i democratici, è indubbia l’allusione a una campagna elettorale (quella del 2016, anno di uscita del romanzo) che ha portato molti voti hillbilly nelle tasche dei repubblicani, contro una Hillary Clinton vista come una donna troppo snob e troppo liberal.
Elegia americana è allora un buon film televisivo, ma nulla di più. Avrebbe potuto diventare un ottimo prodotto di denuncia sociale, contro un’America ancora troppo divisa e diseguale, dove anche gli stessi bianchi vengono discriminati come spazzatura.
(Elegia americana, di Ron Howard, 2020, drammatico, 117’)
LA CRITICA
Ron Howard non convince la critica: il suo nuovo film, Elegia americana, non è all’altezza di A beautiful mind. Discostandosi dalla denuncia sociale che ha caratterizzato il libro da cui ha preso ispirazione, il regista propone un buon prodotto televisivo, rimanendo nel solco sicuro del sogno americano che si avvera.
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