Javier Marías, la sottile arte della prosa
Un’indagine a partire da “Tutti i racconti”
di Niccolò Amelii / 9 dicembre 2020
Brevi (alcuni brevissimi) ma intensi, concentrati e preziosi esercizi di spirito e ingegno nella sottile arte della prosa, ecco la definizione più appropriata per descrivere i racconti di Javier Marías, riuniti adesso integralmente in un unico volume sotto il titolo di Tutti i racconti (Einaudi, 2020).
La raccolta, suddivisa dallo stesso Marías con sornione e ironico autocompiacimento in “Racconti accettati” e “Racconti accettabili”, è una vera e propria summa della produzione breve dello scrittore spagnolo perché comprende, oltre ai testi già contenuti in Mentre le donne dormono (1990) e Quand’ero mortale (1996), il racconto lungo e autonomo intitolato Malanimo (1998) e alcuni brani inediti, scritti negli anni giovanili.
Le short stories di Marías, sostenute da una prosa ritmica, voluminosa e volteggiante, racchiudono in germe, rivelandone alcuni tratti in fugaci bagliori di significanza, le grandi tematiche intorno a cui da sempre gravitano le sue opere – lealtà e tradimento, dissimulazione e dilemma, manipolazione politica, potere come coercizione, amore vero e immaginato, ossessioni e manie dell’uomo – e presentano personaggi spesso in balia dell’implacabile meccanismo narrativo che li trascende e li sovrasta (a volte anche con troppo diletto, disvelando in lontananza il ghigno beffardo dello stesso autore). E infatti la prima impressione che si forma, una volta terminato di leggere il libro, è che, si tratti pure di finti gialli, intrecci sentimentali o polizieschi, ritratti a tinte gotiche, Marías si sia molto divertito a comporre questi racconti e il sentimento di diffusa allegria traspare in controluce, sinuoso riflesso di una scrittura al contempo piacevole e letale, che non concede spazio a nessun minimalismo o rigida e banale linearità (al bando pure l’abusata “teoria dell’Iceberg”), irradiando con notevole candore il tessuto narrativo di ciascuna tessera del puzzle. Il narratore-tipo dello scrittore spagnolo, che non rinuncia mai a riutilizzare l’esteso armamentario tecnico permeato dalla letteratura classica, è nei racconti, così come nella maggior parte dei romanzi, un narratore discreto, appartato, a volte spettrale e fantasmagorico, che sembra costretto a raccontare per cause fortuite, non dipendenti dalla sua volontà. Spettatrice involontaria di scene ambigue e compromettenti, presente suo malgrado nel posto sbagliato al momento sbagliato, la persona che parla (e forse scrive), senza mai calzare perfettamente i panni di un corpo preciso e ben definito, è perciò distaccata, razionale, poco empatica. È infatti lì dove s’interpone il freddo del non-coinvolgimento diretto che la letteratura di Marías germina oltre i propri limiti e le sue capacità stilistiche fanno bella mostra di sé.
Assecondando un andamento lucido e pacato, Marías sembra apparentemente disinteressato allo scioglimento degli enigmi finali, come se fosse consapevole dell’impossibilità di risolvere il caos e avesse rinunciato a voler mettere ordine alla densa e buia nebulosa di presentimenti, presagi e previsioni che si accalca all’orizzonte. Nei suoi racconti l’irrazionale fa capolino senza enfasi o eccessi di fantasia, si tramuta in atmosfera aleggiante, normalizzato dalla penna accorta e dosata dell’autore, quanto mai interessato a esplorare, senza però artificiose forzature di pathos, i limiti instabili e incerti che dividono la normalità dall’anormalità, il noto dall’ignoto, l’abitudine dalla stranezza, la commedia dalla tragedia. Nonostante le scoperte identitarie ambigue e sorprendenti, che riecheggiano motivi pirandelliani, gli sconvolgimenti salvifici e inaspettati che gettano nuova luce sulla natura fallace dei ricordi, le rivelazioni infauste che definiscono la malvagità del potere e di chi lo esercita, la prosa estrosa e elegante di Marías, il cui registro allusivo non diviene mai né oracolare né criptico, rimane baricentro saldo delle vicende, per quanto assurde e fuori dal comune esse possano apparire.
In tempi di scrittura urlata, spezzata, ibridata, falsamente contemporanea, i racconti di Marías possiedono allora già il fascino discreto (e rivivificato) proprio della tradizione, della cui eredità, novecentesca e ottocentesca, lo scrittore spagnolo si fa contemporaneamente interprete e testimone.
L’insostituibile bellezza dell’arbitrio letterario
Raffinatissimo tessitore di trame, siano esse al centro di un romanzo o di una novella, Marías difende, ormai da più di quarant’anni a questa parte, una concezione barocca della letteratura, che si concretizza nella costruzione maniacale e meticolosa delle strutture architettoniche alla base dei suoi impianti narrativi, delle traiettorie geometriche – ellissi, spirali, curve – in cui si incanalano e si aggrovigliano le sue storie e i suoi personaggi.
In virtù di un manierismo compositivo perfettamente naturale, perché interiorizzato e maturo sin dalle prime prove – I territori del lupo (1971), Traversare l’orizzonte (1972) –, l’autore spagnolo è andato via via elaborando, nei suoi romanzi così come nei suoi racconti, intrecci e sviluppi sofisticati e complessi, che però non si esauriscono nella descrizione di realtà fatte e finite, dominate da verità e certezze incontrovertibili, preferendo invece indugiare nei coni d’ombra delle relazioni, dei sentimenti umani, delle vicende storiche, negli spazi interstiziali in cui si susseguono senza sosta congetture, ipotesi, ambiguità, false apparenze e false risposte.
La vocazione di Marías per l’analisi approfondita delle motivazioni oscure e indecifrabili che si celano dietro le azioni e i pensieri dei suoi personaggi finzionali favorisce perciò uno stile digressivo, cerebrale, in cui divagazioni argute e brillanti disquisizioni, a metà tra la filosofia e la psicanalisi, arricchiscono rapsodicamente il flusso del narrato, non disfacendo la materia, ma anzi puntellandola di interrogativi esistenziali – il destino e le sue manifestazioni, il significato del ritorno, il senso della fedeltà, la ferocia del potere, la doppiezza costitutiva dell’animo – che riaffiorano ciclicamente nel corpus letterario dello scrittore, come quesiti irrisolti e forse irrisolvibili a cui però solo la letteratura sembra poter ancora provare a rispondere.
Anglofilo impenitente (ha tradotto, tra gli altri, Faulkner, Hardy, Conrad, James, Shakespeare), Marías procede per effetto cumulativo, armato di un fraseggio a volte tortuoso e serpeggiante, ridisegnando e riposizionando continuamente nelle sue opere il confine sottile e poroso che separa la realtà dall’illusione, ciò che è da ciò che pare, soffermandosi a più riprese sugli snodi decisivi e aporetici in cui l’identità sfuma e si rivela mera apparenza, convenzione forzosa o parodia, sulle svolte in cui si decide il futuro di una persona o si rinnega il proprio passato. Come diventiamo ciò che siamo?
Intenzionato a decostruire con zelo e umorismo le sovrastrutture che ingabbiano e regolano le dinamiche sociali, il romanziere spagnolo presta la sua voce, all’interno di un altalenante contrappunto tra autore, narratore e caratteri, a personaggi spesso cinici, moralmente vacui, privi di ogni remora etica o religiosa, fautori di un individualismo supremo che ingloba in sé l’essere (vero e presunto) e le maschere che gli vengono imposte o si autoimpone, al fine di indagare il valore artificiale o viscerale, oggettivo o soggettivo, del desiderio, del rispetto, dell’amore, prestando al contempo un’attenzione ossessiva alla sensualità dell’artefatto artistico, all’arbitrarietà eccezionale della decisione narrativa, alla messa in atto del marchingegno testuale, perché non si può mai prescindere da un perimetro formale e estetico compiutamente dato e risolto.
I romanzi di Marías – dai capolavori Un cuore così bianco (1992) e Domani nella battaglia pensa a me (1994) agli ultimi lavori Così ha inizio il male (2015) e Berta Isla (2018) – valgono allora e si sostanziano in quanto articolate cattedrali narrative per le scelte che sapientemente l’autore compie, mettendole in fila una dopo l’altra, di sezione in sezione, sino a delineare il tracciato vasto e composito, talvolta eccessivo, del narrato, il disegno conclusivo e globale.
Le sue pagine lasciano intravedere in filigrana l’attenzione registica per il dettaglio e al contempo per l’impianto omnicomprensivo dell’opera. Ne consegue una dialettica del tutto peculiare e personale con le istanze narrative – alter-eghi (uni e trini) abili a tenere saldamente in mano i fili dell’intreccio –, che si dipana e concretizza nella somiglianza velata tra autore e narratore, mai però coincidenti (neanche in Nera schiena del tempo (2000), il libro più apertamente autobiografico) a causa di una sfasatura identitaria irrisolvibile, e nella strutturazione di quello che lo stesso Marías ha definito “un altro-oltre-a-me”, falso doppio che ricopre funzioni di vicariato romanzesco con autorevole dimestichezza in un valzer reiterato e festoso di accostamento e repulsione.
Accade però talvolta che, come saturo delle sue stesse certezze autoriali, il narratore-tipo dello scrittore madrileno sia posseduto dal gusto un po’ infantile e eccentrico, dal piacere fanciullesco e irrefrenabile di calarsi per un attimo nella vita degli “altri”, dei caratteri andati definendosi di capitolo in capitolo, di abitarli più di quanto a un narratore che si presenta superiore e tradizionalmente altero sarebbe lecito fare.
Contese da un autore rabdomantico, a volte un po’ voyeur a volte un po’ filosofo, innervate da una forte dose di relativismo conoscitivo e da una certa tendenza allo scetticismo cartesiano, le storie di Marías spesso non si concludono, non hanno un finale chiaro e sintetico, perché nessuna storia può concedersi il lusso di essere inequivocabile, non ritrattabile, definitiva. Esse sono sempre suscettibili di numerosi e variegati mutamenti, di un disvelamento potenziale e improvviso che spariglia le carte. Esistono troppe prospettive, angolature, punti di vista inesplorati che potrebbero tornare a illuminare una sfumatura, anche minima, ma capace di scompaginare la trama e l’ordito, di sovvertire i risultati e le intenzioni. Ogni luce nasconde più ombre e ogni storia ne produce in nuce infinite altre, che il narratore magari intuisce, ausculta in maniera estemporanea, ma non può, o non vuole, raccontare. È il dovere della letteratura, in fondo, sceglierne alcune, non sceglierne altre.
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