Il rosso e il blu
di Luca Giommoni / 10 dicembre 2020
Come hanno potuto sperimentare in molti, in cattività neppure il pensiero è libero: ritorna sempre sulle solite questioni.
Mi daranno da mangiare stasera? Avranno trovato la mezza razione di cibo che ho nascosto sotto la branda? Questo bicchiere contiene acqua pulita o salata? Dove avranno portato il tizio che si è ammalato? Dov’è mio fratello? Avrà visto i messaggi che gli ho lasciato? Quanti altri soldi mi chiederanno per farmi uscire? A chi posso chiederli, chi chiamare la prossima volta? Di chi è la scia di sangue sul pavimento? Cosa succede nella stanza da cui provengono tutte quelle risate? E perché le donne escono da lì dentro piangendo? Il bambino immobile in quell’angolo dorme? Chi mi può aiutare? Stanotte verranno da noi, con i secchi d’acqua e i cavi?
Lo stesso giorno in cui hanno sguinzagliato i gatti, incaricati di far cessare la proliferazione dei ratti nel settore tre, Benedict non ha avuto più dubbi.
Nell’attesa che i felini facessero il loro dovere, i detenuti del settore erano stati spostati di nuovo all’aperto. Alcuni un’altra volta nelle gabbie, altri in baracche vicine alle latrine delle donne.
È stata una pisciata appartata che ha portato Benedict dietro all’edificio, poco più in là di dove tenevano le donne e i bambini.
Una baracca e uno stendibiancheria improvvisato, costruito con fili tenuti in aria da aste di legno, si levavano dal fango prima di lasciare posto a un unico bassopiano desolato che spaziava fino a dei crinali lontani come l’orizzonte. Cosa ci fosse dietro a quelle creste montuose non era dato saperlo. Accanto alla baracca, appoggiata a terra, c’era una cesta di panni appena lavati e, da dietro, arrivavano grugniti soffocati e risa.
I brevi passi di Benedict non erano mossi dal coraggio, bensì dall’interesse per la cesta all’apparenza dimenticata. Anche un paio di mutande pulite sarebbe stato sufficiente.
È durato tutto una manciata di secondi. Benedict ha alzato lo sguardo e ha scorso, dietro la baracca, un gruppo di guardie che tenevano immobilizzato un uomo sul fango e lo costringevano a guardare davanti a sé. Dell’uomo si distinguevano solo le sclere bianche degli occhi, l’età o l’aspetto erano rese indecifrabili da tutta la poltiglia che aveva addosso. E comunque non gli sarebbe servito altro che il suo sguardo per seguire l’andirivieni di pantaloni abbassati e natiche pelose muoversi un po’ più in su di due talloni che emergevano dal fango e continuavano in cosce di donna.
Benedict è tornato subito sui suoi passi. Ha cercato di non far rumore e ha dovuto fare finta di niente quando si è ritrovato di fronte un gruppo di guardie in una marcia scomposta verso la baracca. Un burlone lo ha preso di mira con il fucile e ha simulato di sparargli. Benedict, di riflesso, ha fatto qualche passo di lato, insufficiente dall’evitargli che uno sputo gli si posasse sulla spalla. Dietro di lui si sono alzate risa dal rumore beffardo che poco dopo si sarebbero confuse ai grugniti dietro la baracca.
In quel momento, Benedict ha capito. Ha capito che il grande edificio con la facciata semidistrutta non era altro che una rappresentazione fedele in scala uno a uno di come dovrebbe essere un edificio in una zona di guerra; che il cielo senza nuvole sopra la sua testa non era altro che un ologramma di un cielo in una continua giornata di sole; che la sbobba datagli da mangiare non era altro che una riproduzione sufficiente di quanto sarebbe bastato per nutrire un corpo umano; che l’aria che respirava non era altro che ossigeno derivato da un raffinato sistema di ventilazione; che quei buchi di culo pelosi impegnati in un avanti e indietro divertito non erano altro che una raffigurazione di come dovevano percepire l’amore in un umano; che sia l’edificio, sia il cortile esterno, sia le baracche, sia le gabbie, sia il fango, sia i camion con cui gente andava e veniva, non erano altro che imitazioni contenute in una gigantesca astronave.
Se fosse riuscito a salire sul tetto dell’edificio e avesse provato a toccare il cielo, gli si sarebbe rivelato davanti solo un gigantesco oblò trasparente, dal quale non avrebbe visto altro che lo spazio profondo e, forse, la Terra, lontana anni luce, ignara di tutto, che continuava a girare tranquilla.
Ecco perché, quando l’avevano rapito, la famiglia dell’uomo bianco non si era accorta di nulla: non per indifferenza, ma a causa dell’utilizzo di una tecnologia superiore per distorcere la realtà visibile. Ed ecco spiegate le ragioni per cui li sottoponevano a tutti quegli esperimenti che mettevano a dura prova l’integrità fisica e mentale: erano solo cavie da laboratorio, svisceravano le loro reazioni, studiavano il funzionamento di una diversa forma di vita, o di un nuovo congegno, come un liutaio può studiare il meccanismo di uno strumento a corde mai visto prima.
Ha capito che quegli uomini vestiti da guardie, in realtà, non erano altro che dei fottuti extraterrestri travestiti da umani.
Era stato rapito.
Questo passo è tratto da Il rosso e il blu, romanzo d’esordio di Luca Giommoni pubblicato da effequ.
Luca Giommoni (Cortona, 1985) è insegnante di italiano per stranieri. Ha lavorato sia in scuole private che in associazioni no profit. Negli ultimi anni ha svolto anche il ruolo di operatore in un centro di accoglienza straordinaria.
Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, L’Indiscreto e sul Corriere Fiorentino.
Il rosso e il blu: Makamba ha una missione: aggiustare il mondo attraverso l’acqua. Partito dal Mali con un quadernino di famiglia e poco più, attraversa i continenti per equilibrare i rubinetti di ogni paese. Dalla Cina alla Svezia, passando per la Libia, Makamba sbarca in Italia per ritrovarsi nel centro di accoglienza straordinaria Arcobaleno. Da lì riprende la sua ambiziosa e sconclusionata impresa, accompagnato dagli altri ospiti del centro, ognuno con la propria specifica idea di mondo, e dagli operatori, che combattono un sistema ostile a suon di cinismo e fialette puzzolenti. La loro storia si muove tra fantasia surreale e terribili esperienze, in una favola che racconta un presente meraviglioso e atroce, in cui il lieto fine va cercato a tutti i costi e, se non lo si trova, va inventato.
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