5 anni di Aurora de I Cani
di Luigi Ippoliti / 3 febbraio 2021
I Cani è il fenomeno cardine della musica italiana degli ultimi dieci anni. Prima di Calcutta e di Tommaso Paradiso. Senza Niccolò Contessa, il primo non avrebbe trovato il terreno per il suo pop da cameretta (che poi si è trasformato in pop da stadio) e il secondo molto probabilmente non avrebbe avuto l’intuizione della svolta retro anni ’80. Mentre loro esplodevano definitivamente e la trap segnava il suo anno di svolta in Italia, il 29 gennaio di cinque anni fa usciva Aurora.
Contessa è un personaggio che sfugge, intangibile. Una sorta di fantasma che si aggira nel mondo della musica. Le sue apparizioni, come quella di “Alla fine del sogno” dello scorso 27 dicembre su Soundcloud, vengono vissute come delle manifestazioni messianiche. Appartiene a questo universo, gli ha dato origine, in qualche modo (anche involontariamente) lo ha plasmato. Allo stesso tempo sembra non ci sia spazio per lui, l’espressione della sua natura è esaltata dalla sottrazione del suo personaggio che poi, per dei giochi psicologici, lo rende qualcosa di estremamente attraente.
In dieci anni ha scritto tre album: Il sorprendete album d’esordio dei Cani, Glamour e, appunto, Aurora. La scansione del tempo dei lavori de I Cani è quella di certi grandi artisti che si prendono il loro tempo per dare vita alle loro opere. Aspetto da non sottovalutare, e che rientra nell’epica che c’è attorno a lui e che lo rende così specifico nel panorama musicale italiano.
Aurora è il suo lavoro evidentemente più maturo, e a cinque anni di distanza risulta ancora così, anche se quest’aggettivo ambiguo si porta appresso dei significati che potrebbero deviare quello che è il senso del discorso che Contessa sta facendo della sua carriera, semplificando inutilmente. Ma è indubbio che ci sia molta più stratificazione – una coscienza della fragilità che raggiunge livelli esponenziali -, e che i brani abbiano dietro di loro universi che i due precedenti non hanno. Nonostante i primi due (soprattutto Il Sorprendete album), di fatto, si facevano apprezzare per un’immediatezza di quel pop punk sui generis a cui sommava delle intuizioni notevoli dei tic nei rapporti umani (“Le coppie“, per esempio).
Attraverso Glamour, Contessa è riuscito a costruire, a potenziare, un ragionamento sul senso della solitudine dell’individuo, preso come singola unità all’interno di quel sistema complessa che è la società, prima nei rapporti interpersonali, e poi, quasi di riflesso, di fronte al mistero di fenomeni che ci sembrano sempre troppo distanti da noi. Ragionare in questi termini poteva dare vita a confusione e pressapochismo, un lavoro che sarebbe potuto essere uno stop, invece in Aurora emerge tutta la capacità di analisi e perspicacia di Contessa.
La sua poetica vive di istantanee quotidiane e illuminazioni sull’enormità dell’universo, i suoi movimenti insondabili, il senso complesso dell’infinito e delle sue leggi fisiche. E se non è il cosmo, sono logiche dei mercati finanziari, altra materia in cui siamo immersi, come in “In questo nostro grande amore” (che poi in “Sparire” si traduce in un abbandono nichilista struggente e crudele: «Quello che non mi fa addormentare non è il capitale / Non è il triste destino che attende questo mondo cane / È la polvere che sta aspettando il mio ritorno»).
Già in “San Lorenzo” era presente la difficoltà dolorosa di mettersi di fronte all’essere infintamente inutili al cospetto delle meccaniche celesti, meschini ed egoisti nel chiedere qualcosa per noi di fronte all’imponderabile mistero dell’universo. In Aurora questo discorso viene portato a un livello superiore (che trova il suo massimo nell’affresco della già citata “Finirà“) e declinato con grande intelligenza.
Dovendo tracciare delle linee, pare evidente come Calcutta ne segua una ideale che da Battisti e Gaetano arrivi a lui attraverso Cesare Cremonini, mentre Tommaso Paradiso è il culmine di qualcosa che da Venditti e Vasco Rossi si confonde con Luca Carboni. Contessa è figlio di un altro discorso, che ha in Battiato l’origine e nei Baustelle il suo filtro.
Contessa prende l’eredità di questa traiettoria, costruisce un suo immaginario lirico e sonoro che si distacca da quello dei suoi maestri, tenendo a mente un’idea chiara e decisa. Il rapporto tra essere umano e natura, tra filosofia e astronomia, e un intrinseco misticismo alla Battiato, in Aurora emerge in maniera significativa.
Un terreno non battuto, complesso, di difficile lettura. E che rimane quasi qualcosa a sé stante, senza ripercussioni reali, a oggi, sulla musica italiana.
L’unico esempio che può rientrare in questo discorso è legato, non a caso, con i dovuti distinguo, al primo lavoro solista di Bianconi, Forever. C’è una spinta che nasce nello stesso luogo (per estensione appunto Battiato) e che si dirama nel contemporaneo senza scimmiottare il passato, ma prendendosi la responsabilità di dover parlare del proprio tempo spingendosi oltre i confini della finitezza umana. Aurora è, in definitiva, il capolavoro di Niccolò Contessa.
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