Uno scricchiolio familiare
Amparo Dávila e i racconti della rimozione
di Martin Hofer / 9 febbraio 2021
Chiamatelo insolito, weird, horror, fantastico, perturbante. Di qualsiasi cosa si tratti, Amparo Dávila ne è maestra. E a pensarci bene varrebbe davvero la pena non chiamarlo affatto, perché a questa cosa che ha attraversato gran parte dei racconti della scrittrice, neppure la sua creatrice ha osato dare un nome. È un male impronunciabile, inspiegabile, una crepa dell’anima che si schiude nella realtà, o forse un nemico che bussa dall’esterno, impossibile cercare una risposta dato che la risposta, semplicemente, non c’è.
Nata nel 1928 a Pinos, Messico centrale, e scomparsa soltanto pochi mesi fa all’età di novantadue anni, Dávila è stata autrice tutt’altro che prolifica se si contano (sulle cinque dita di una sola mano) le raccolte di racconti e di poesie (sull’altra mano) pubblicate in patria. Ciononostante il suo nome, seppur in età già matura, è stato spesso identificato come uno dei più importanti nella storia del racconto messicano. E se sono in molti a rintracciare in lei l’influenza di Edgar Allan Poe (lo diceva anche Cortázar, suo grande estimatore) e Shirley Jackson, sembra che Dávila sia stata a sua volta uno dei principali riferimenti per la nuova generazione di scrittrici, perlopiù argentine, che camminano sul filo sottile che separa l’insolito dal distopico (Mariana Enríquez, Samantha Schweblin, la boliviana Giovanna Rivero, per fermarci ad alcune tradotte in Italia).
L’ironia della sorte ha voluto che la pubblicazione di L’ospite e altri racconti (Safarà, 2020), suo esordio assoluto in Italia, sia giunta proprio a pochi mesi dalla sua scomparsa, un destino beffardo che potrebbe tranquillamente essere materia per una delle storie uscite dalla penna dell’autrice.
A lettura ultimata, il primo aspetto che salta subito all’occhio è che i dodici racconti che compongono la raccolta si presentano come dodici variazioni su tema della medesima storia.
I protagonisti sono quasi sempre uomini o donne solitari (“Frammento di un diario”, “Tina Reyes”), costretti per ragioni famigliari o di salute tra le mura domestiche (“L’ospite”, “La cella”, “Moisés e Gaspar”, “Il funerale”), spesso sopraffatti dal rimpianto o dal terrore per un passato con cui si ritroveranno a fare i conti (“Fine di una lotta”, “Óscar”). E qui arriva l’elemento sinistro, la cosa indicibile che non ha quasi mai un nome, né una descrizione.
Come fa notare lo scrittore Alberto Chimal nella prefazione «chi legge Amparo Dávila non saprà mai esattamente identificare le minacce che le sue protagoniste, quasi sempre donne, si trovano ad affrontare», e ancora «il mistero non si spiega mai, né viene mitizzato, ma rimane informe, diventando quindi fonte inesauribile di angoscia, di inquietudine».
Il processo di omissione, in alcuni casi, viene spinto fino alle sue estreme possibilità. Chi è (o forse sarebbe più corretto dire che cos’è) l’ospite che nell’omonimo racconto turba le notti della protagonista e della sua domestica? Moisés e Gaspar, lascito di un suicida all’amato fratello, sono animali o bambini? Di quale malattia mentale o deformità fisica soffre Óscar, l’essere che vive segregato nella cantina della famiglia Roman e che esce solo di notte?
Sempre Chimal: «Nessuno in Messico aveva mai provato quella combinazione così precisa e particolare di ambiente quotidiano, domestico, angosciante – in cui lei stessa ha vissuto – con l’oscuro: la cognizione di qualcosa di indecifrabile, una o molte possibilità di esistenza diverse dall’abituale e perfino dall’umano».
Il male immaginato da Dávila è indecifrabile perché strettamente connesso all’interiorità dei personaggi. Dargli una forma significherebbe per loro riconoscere l’esistenza di un trauma, accettarlo come qualcosa di presente, un ospite senza invito che ormai sta lì, e non si può più cacciar via.
Meglio quindi non scendere troppo nei particolari, se è un mostro non esiste? se non lo descrivo sparirà?, sembrano chiedersi implicitamente i protagonisti di questi racconti della rimozione (ed eccoci a Shirley Jackson e ai suoi romanzi).
Alla luce di tutto ciò, il gesto estremo – talvolta compiuto nei confronti degli altri, altre volte nei confronti di sé stessi – che battezza gran parte dei finali giunge quasi come una liberazione, una catarsi purificatrice di sangue o fuoco attraverso la quale i personaggi sembrano trovare finalmente pace. I racconti si interrompono però prima di svelare al lettore se la morte porti a una reale salvezza oppure a una dannazione eterna.
I pregiudizi, le incomprensioni e le solitudini che dalla società sgocciolano nell’ambiente famigliare sembrerebbero tornare di racconto in racconto, tramandarsi di generazione in generazione, una sorta di malocchio con il quale si deve coesistere, almeno fino a quando la vita non diventa insostenibile.
«È inutile opporsi, possiamo fare mille giri e arrivare sempre al punto di partenza […] Ci sono cose contro le quali non si può lottare, caro José».
Lo dice Leónidas, nel racconto “Moisés e Gaspar”. Qualche tempo dopo si toglierà la vita nella propria abitazione, accompagnato soltanto dai propri demoni.
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