Vertigine di popoli e universi
“Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamín Labatut
di Martin Hofer / 2 marzo 2021
Un paio di anni fa mi imbattei in una preziosa antologia di racconti di autori cileni edita da Gran vía (Tintas, 2017, a cura di Maria Cristina Secci). Tra scrittori e scrittrici relativamente conosciuti nel nostro paese – Nona Fernádez, Alejandro Zambra –e nomi ancora inediti, spiccava “L’Antartide finisce qui” di Benjamín Labatut, il racconto dell’enigmatico e controverso poeta-soldato Vasek (cognome che ricorre anche in questo libro, nel personaggio del pittore suicida Jean-Baptiste Vasek) e di una fantomatica spedizione da lui capitanata nel continente più impenetrabile della Terra: l’Antartide.
A fronte di un innesco narrativo un po’ trito (aspirante scrittore che vivacchia in un giornale inizia a nutrire un’ossessione per il pezzo al quale sta lavorando), il racconto colpiva per il suo potente immaginario e per la sua capacità di frullare moltissimi spunti e generi letterari in una trentina di pagine scarse.
Oggi ritroviamo Benjamín Labatut con questo Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021), un’opera altrettanto ibrida e ancor più ambiziosa nel suo tentativo di mescolare fiction, saggistica, biografie di personaggi storici e contraffazione biografica, dalla configurazione instabile sia nella struttura che nella forma.
Partendo dalla struttura, potremmo affermare con una certa dose di approssimazione che Quando abbiamo smesso di capire il mondo è composto da tre racconti lunghi (“Blu di Prussia”, “La singolarità di Schwarzschild”, “Il cuore del cuore”), un romanzo breve (l’omonimo “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”) e un epilogo (“Il giardiniere notturno”).
Prima di addentrarsi nella lettura, può anche essere utile specificare che ci troviamo al cospetto di «un’opera di finzione basata su fatti reali» e che «la quantità di finzione va aumentando nel corso del libro», per dirla con parole dell’autore.
Questa premessa è uno dei pochi elementi ai quali è possibile aggrapparsi nel momento in cui, pagina dopo pagina, Labatut inizia a trascinare il lettore in un vortice di storie, aneddoti, corsi e ricorsi storici che inseriscono alcuni personaggi esistiti o esistenti – l’alchimista Johann Konrad Dippel e il chimico Fritz Haber, il matematico Shinichi Mochizuki e l’apolide Alexander Grothendieck, il fisico Erwin Schrödinger e il suo rivale Werner Karl Heisenberg – in un universo di irrealtà reale o, se preferiamo, di verosimile menzogna.
Saltando da epoche lontane alla contemporaneità, dalla scienza all’alchimia, dalla consacrazione al baratro, questo libro riannoda i fili della Storia e il vissuto di alcune figure rivoluzionarie per parlarci di una trama più grande e sostanzialmente ineffabile, una complessità – qualcuno la chiamerà Destino, qualcun altro Dio – che ci dirige, ci governa, e in ultimo ci condanna.
Quando abbiamo smesso di capire il mondo è dunque un romanzo di conseguenze, come testimonia fin da principio “Blu di Prussia”, un racconto corale che, attraverso un percorso accidentato che procede quasi per associazioni, riesce a collegare la fortuita scoperta del “colore originale del cielo” con il soffio letale dello Zyklon B nelle camera a gas, il tutto chiamando in causa Swedenborg, Napoleone, Rasputin, Mary Shelley e Turing. Un esempio:
«Uno dei componenti dell’elisir di Dippel avrebbe poi prodotto il blu che compare nella Notte stellata di Van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai, ma anche nell’uniforme di fanteria dell’esercito prussiano, come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche».
In una recente conversazione con Claudia Durastanti, Labatut ha evidenziato l’impossibilità di interagire con la complessità se non per mezzo di storie, lo strumento privilegiato dall’essere umano per rielaborare e dare forma al mondo.
Come sostengono Bohr e Heinsberg al momento di presentare la loro versione della meccanica quantistica in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”:
«La realtà […] non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un elettrone non si trova in nessun luogo fisso finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare».
Le storie sembrano quindi essere per lo scrittore cileno l’equivalente delle operazioni di misurazione e osservazione in ambito scientifico.
Il guaio è che tale forma, anziché rassicurarci, ci proietta in una vertigine di popoli, di reazioni chimiche, di scoperte scientifiche, di teoremi matematici e di eventi naturali che si aggregano in una rete di interdipendenze a tratti insostenibile, come se stessimo sollevando un sasso sotto al quale pullula un formicaio sterminato.
In questo caos è possibile però identificare alcune costanti labatutiane che, guarda caso, possono essere rintracciate anche in “L’Antartide finisce qui”. Innanzitutto la rappresentazione di una natura ostile e spietata, ma al contempo rivelatrice. È grazie al confronto con le scogliere di Helgoland o con le tempeste di neve in Antartide che i personaggi, spesso allo stremo delle loro forze, riescono a raggiungere o perfezionare un’intuizione che cambierà per sempre il corso delle cose.
La seconda costante è la fascinazione per il genio e per il fardello che il genio scarica sulla vita di chi lo ospita e di chi gli sta attorno. L’epifania e gli anni di studio per mettere a punto una scoperta non vengono mai vissuti dai personaggi del libro come una passeggiata di salute nei territori della conoscenza. Il genio viene più volte respinto, rifuggito. Perché? Di nuovo per il peso delle conseguenze che si potrebbero abbattere sull’umanità, e forse anche per paura di spingersi a un livello di comprensione della realtà troppo estremo. Il livello in cui si smette di capire il mondo, appunto.
Dopo aver rivoltato come un calzino ogni certezza matematica, Alexander Grothendieck fece progressivamente perdere le sue tracce e dette mandato di ritirare tutte le sue pubblicazioni perché “nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte”.
«Grothendieck non poteva fare a meno di mettere in discussione l’effetto delle proprie azioni sul mondo. Quali nuovi mostri avrebbe generato una comprensione totale come quella cui lui ambiva? Cosa avrebbe fatto l’uomo se fosse riuscito a toccare il cuore del cuore?»
«Possiamo scindere gli atomi, ammirare la prima luce e predire la fine dell’universo con un pugno di equazioni, scarabocchi e simboli arcani che le persone normali, che pure controllano ogni minimo dettaglio della propria vita, non comprendono. Ma non si tratta solo della gente comune: nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo-ambiente».
E qui arriviamo alla terza e ultima costante: la violenza, evocata non soltanto dalle trincee o dai campi di sterminio nazisti, ma anche dalle voragini che il progresso sembra condannato a lasciarsi alle spalle ogni volta che ci spinge un po’ più avanti. L’invito di Labatut è quello di accogliere questa natura bifronte – della scienza, del mondo, ma anche di noi stessi – di osservare la realtà senza banalizzarla. Solo una visione d’insieme «come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permetterà di decifrare la forma in cui è organizzato il mondo». E se non basterà (e non basterà), avremo comunque imparato a guardare in fondo all’abisso resistendo alla vertigine.
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