Fenomenologia del dandismo
“L’uomo con la vestaglia rossa” di Julian Barnes
di Niccolò Amelii / 15 marzo 2021
L’uomo con la vestaglia rossa (Einaudi, 2020), ultima fatica di Julian Barnes, è un romanzo atipico, strutturato in maniera eterogenea e composita, che si situa in un crocevia fluido e liminare tra personal essay, discorso ecfrastico, biografia, saggio di costume, memoriale socio-politico, riflessione sui libri e sulla letteratura. Spingendosi sin dalle prime pagine oltre confinamenti rigidi di generi e codici letterari, l’opera di Barnes esibisce senza pudore il proprio artificio narrativo, che si esplica attraverso un doppio livello diegetico: la vicenda vera e propria e le considerazioni autoriali che muovono e contestualizzano il narrato, fornendo pretesti, moventi, direzioni e glosse esplicative. All’interno di questa cornice binaria e altalenante, che si rinnova lungo l’intero arco del testo, ampio spazio è dato anche alle immagini, riproduzioni di foto d’epoca e quadri che rappresentano allo stesso tempo un compendio e un plus ultra antropologico, un contraltare prezioso che restituisce visivamente i protagonisti al centro del racconto, concedendo al nostro sguardo di attardarci sull’espressione di un volto, sulla valenza di una posa, sulla fisionomia di un frammento di passato incontrovertibile su cui far veleggiare gli umori disparati e sognanti della nostra fantasia, suscitati dalle atmosfere di fin de siècle tratteggiate con maestria e dovizia di particolari. D’altronde di sapere scrivere con arguzia, estro e autorevolezza d’arte ed artisti Barnes lo aveva già dimostrato nel recente Con un occhio aperto (Einaudi, 2019), raccolta di saggi dedicata ad alcuni tra i più importanti pittori degli ultimi due secoli, come Manet, Degas, Cézanne, Braque, Picasso e Magritte.
La narrazione di Barnes prende le mosse dal quadro Dr. Pozzi at home, dipinto da John Singer Sargent nel 1881, che l’autore ha potuto ammirare alla National Portrait Gallery di Londra nel 2015, dove era arrivato in prestito dall’Hammer Museum di Los Angeles. Colto in posizione frontale, la spalla destra leggermente calante, lo sguardo assorto rivolto alla destra del pittore, il dottor Pozzi è avvolto da una vestaglia rossa scarlatta, che si staglia cromaticamente sul tendaggio bordeaux posto sullo sfondo. Figura snella ed elegante, seppur in veste da riposo, il dott. Pozzi mette in mostra sapientemente le sue mani da chirurgo talentuoso, dita sottili e affusolate. Rimasto affascinato dalla rappresentazione un po’ teatralizzante di quest’uomo all’epoca celebre e oggi invece molto meno conosciuto, Barnes lo utilizza come chiave di volta, espediente narrativo fondante, facendo del racconto della sua esistenza esemplare il motore centrale del romanzo.
Chirurgo dal talento indiscutibile, attento agli sviluppi più recenti della disciplina nel panorama internazionale, cultore e conoscitore della materia, all’avanguardia nelle tecniche e nelle procedure nuove e sperimentali, Pozzi è stato a lungo il primario di chirurgia all’ospedale “Broca” di Parigi, nonché il primo ad aggiudicarsi la neonata cattedra di Ginecologia, istituita nel 1901, nonché medico di alcune tra le più nobili famiglie dell’alta società e di alcune tra le più eminenti e affermate personalità francesi del secondo Ottocento – aristocratici, attrici, scrittori, artisti, drammaturghi, politici. Esteta, uomo di mondo e dalle idee progressiste, affabile conversatore, fine collezionista d’arte (nella sua collezione Tiepolo, Turner, Delacroix e molti altri), il dott. Pozzi è parte integrante di una variegata quanto peculiare cerchia di dandy, decadenti, bohémiens, entro la quale spiccano per personalità e stranezza personaggi come il principe Edmond de Polignac e il conte Robert de Montesquiou, novello Petronio irascibile e vendicativo, arbiter elegantiae eccentrico e appariscente, protagonista occulto del libro. Rispetto ai suoi sodali, Pozzi è un “tipo” alla Byron, che conserva saldamente i pregi dell’essere colto, bello, adulato senza però soccombere agli eccessi, rimanendo sempre in equilibrio tra lavoro, famiglia e bel mondo. Intorno a loro gravitano altre figure di notevole spessore e chiara fama, come Oscar Wilde, Henry James, Sarah Bernhardt, James Abbott Whistler, Joris-Karl Huysmans, in un valzer affettato di intrighi, pettegolezzi, maldicenze e sofisticatezze che ben rappresenta le sfaccettature preminenti di una fenomenologia del dandismo franco-inglese.
D’altronde chi meglio di Barnes, di certo il romanziere britannico contemporaneo di maggior ascendenza francofila, poteva fornirci una panoramica suadente e veritiera sui vizi e le virtù che avvinghiavano ed esaltavano la Parigi del XIX secolo? La biografia del dottor Samuel-Jean Pozzi diventa ben presto solo un pretesto narrativo per gettare luce sulle vite, le esperienze, le vocazioni delle numerose persone che a lui sono collegate per vincoli di amicizia, affinità o conoscenza, secondo un moto alveolare crescente che ingrossa vorticosamente la portata e la profondità del panorama umano che abita le pagine del romanzo. Ecco che allora l’opera di Barnes, procedendo per accostamenti reticolari in una progressiva e fitta trama di echi, allusioni e rimandi interni, si trasforma in un gran palinsesto, stratificato e intertestuale, capace di dialogare in maniera sostanziale e atemporale con altri libri (miracoli della letteratura!), come À rebours di Husymans, Monsieur de Phocas di Jean Lorrein e il Journal dei fratelli Goncourt. L’uomo con la vestaglia rossa è dunque anche un libro-conversazione, dal tono posato, dal piglio arguto ed erudito, alimentato da una prosa asciutta e rigorosa e da una lingua raffinata, esuberante, ma sempre ponderata, formalmente assimilabile al contenuto, all’epoca e alle atmosfere prese a modello.
Nell’economia del romanzo grande spazio occupano le digressioni, le regressioni, le parentesi e gli incisi – tutto quello che caratterizza il movimento ondoso e multilaterale della letteratura – che però vengono costantemente recuperate sul piano principale del sostrato narrativo, una galleria di cartoline da un passato reale e al contempo irreale, sublimato dalle capacità trasfiguranti e trasgressive del dire letterario. Sullo scheletro basilare dell’opera – un’incursione prolungata nei meandri sfarzosi e umbratili della Belle Époque – Barnes innesta altresì una estemporanea ricognizione storico-culturale sui rapporti ondivaghi tra Francia e Inghilterra, occasione privilegiata per sporadiche e mai pedanti considerazioni prospettiche sulle ingenti differenze che da sempre dividono i due popoli sul modo di considerare e vivere la sessualità, il matrimonio, la res publica, la moralità, la vita privata, l’esperienza del reale.
Ne vien fuori una lettura appagante e godibilissima perché anche nei passaggi maggiormente riflessivi, in cui la narratività dell’intreccio è ridotta a un lumicino intermittente, il periodare dell’autore rimane piacevole e ingegnoso, cesellato e cadenzato, ma ben lontano da un’autoreferenzialità pretenziosa e fine a sé stessa. La tensione comunicativa non viene vanificata dalle tendenze formalizzanti e dagli arabeschi del fraseggio. Inoltre, la resa narrativa degli ambienti è vivida, colorita, e la caratterizzazione dei personaggi, seppur fedele a connotati storicamente accertati, si sviluppa sempre oltre la mera sintesi fattuale e biografica, oltre la puntuale testimonianza documentaristica, per confluire poi in quel disavanzo costituito dalla pura letterarietà, dal gusto rappresentativo, dal gioco citazionistico e dalla verve della prosa, insomma da quegli elementi propri e caratteristici dell’atto romanzesco e del talento autoriale di Barnes.
Prescindendo dalle contingenze del narrato e dalle specifiche connotazioni storico-sociali, L’uomo con la vestaglia rossa diviene al contempo luogo di una riflessione universale sulla formazione dell’identità individuale e collettiva, sul farsi e disfarsi di mode estemporanee e durature, sui pregiudizi inossidabili e fatui, sul logorante e caleidoscopico esercizio d’essere sempre un altro e sempre sé stesso. All’interno di un’orchestrazione contrappuntistica, che alterna senza soluzione di continuità racconto e personal essay, Barnes è in grado di soffermarsi con leggiadria sulle contraddizioni che sorgono tra essere uomo e personaggio, sulla necessità di calzare maschere variopinte e antitetiche in base all’occasione e alla compagnia, sul dubbio amletico di piacere a sé stessi o ai propri simili, sul giogo vessatorio dell’ostracismo, sulle schizofreniche pratiche sociali di glorificazione e repulsione, sui meccanismi e sulle dinamiche latenti della fama e della celebrità, del successo personale, sui moti che si celano dietro invidie manifeste o malcelate.
Proprio in virtù di questa seconda pelle, che cresce in maniera contigua alla prima assecondando una traiettoria complementare e inclusiva, quello di Barnes, oltre ad essere un colto e raffinato divertissement, è un libro che sfiora tangenzialmente la dimensione del politico. Non stupisce quindi la chiosa finale polemica e al vetriolo che conclude il volume, in cui l’autore inglese si rammarica per la Brexit e per le decisioni scellerate prese dai suoi concittadini e dalla classe politica attuale negli ultimi anni, rimpiangendo i tempi lontani rievocati nel romanzo, in cui ci si spostava in comitiva da Parigi per andare a fare pregiate compere a Londra e gli inglesi andavano in Francia per assaporare un po’ di sano libertinismo e discutere con accanimento e letizia di arte e letteratura.
(Julian Barnes, L’uomo con la vestaglia rossa, trad. di Daniela Fargione, Einaudi, 2020, 296 pp., euro 22, articolo di Niccolò Amelii)
Comments