Un femminismo senza vittime

“Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter

di / 25 marzo 2021

Cover di Ripartire dal desiderio di Elisa Cuter

Il saggio Ripartire dal Desiderio (minimum fax, 2020) può sembrare la sbobinatura di una serata tipo che avresti potuto passare con una tua amica. Io me la immagino così: mentre torna a casa con la metro, la tua amica scende alla fermata e un luminescente pannello digitale illumina il suo volto; è la pubblicità della “Lines è” che alle 18.20 le ricorda che «è ora di fare un passo avanti». Siccome stasera di fingere che avere delle tube sia un valore connaturato e superlativo che le permette di sfilare accanto a Emma Marrone fiera e sanguinante non ne ha proprio voglia, suona il tuo campanello, mentre tu hai già stappato il vino e sei pronta con due calici.

Un fiume di polemiche incazzate si alterna a un pacchetto di tabacco che gira tra le mani delle due amiche. La discussione sull’orgoglio di Emma Marrone e la sua schiera di amazzoni si fa sempre più accesa, si arricchisce di aneddoti personali e di pensieri associativi: «Ma ti sei mai chiesta se mettere una foto di te mezza nuda su Instagram ti renda più libera o più oggettificata?» E l’altra, con una bottiglia già a metà: «Ha proprio ragione Simone de Beauvoir, “una donna è una donna prima di essere una persona, la parola ‘femmina’ la imprigiona nel sesso, ovvero nella sua anatomia”».

Il discorso è un filo che si dipana da Emma Marrone alla lotta di classe, interrotto da qualche pausa in cerca dell’accendino o per andare in bagno; poi si riavvolge e si ricollega a considerazioni di ogni tipo, perché le narrazioni distorte sulle donne hanno ormai permeato tutto: l’ultima serie tv che hai guardato, la retorica sui disturbi alimentari, Lilli Gruber e il Papa. E siccome la bottiglia di vino è finita davvero e, prima di passare alla seconda, devi ingurgitare qualcosa perché sono già le 21 passate, la tua amica mette l’acqua in pentola e mentre accende il gas se ne esce così: «Il posto di una donna non è in cucina, non è in fabbrica, non è in azienda, non è in un film di Hollywood… è nella rivoluzione».

La tua amica è proprio la femminista incazzata che ti ricordavi, pronta a dispensare riflessioni mai banali, comunista per davvero, perché guardando un pannello pubblicitario rivolto a donne come lei si ferma a chiedersi dove stia l’inganno. E lo capisce presto: deve aprire il portafogli. La tua amica si chiama Elisa Cuter. È dottoranda e assistente di ricerca a Babelsberg e Ripartire dal desiderio è il suo primo libro. Quando era bambina, non c’erano le pubblicità con fiere paladine del ciclo, ma un programma che sicuramente ha aperto la strada alla piramidale sequenza di donne che marciano a suon di girl power dietro Emma Marrone: si chiamava Non è la Rai e la sua figlia più celebre, negli stacchetti pomeridiani, era Ambra Angioini.

Partendo da qui, da un programma che ha condizionato l’immaginario collettivo di una generazione intera con la figura di una donna un po’ Lolita e un po’ imprenditrice, per oltre duecento pagine Elisa Cuter ci parla dei rischi delle attuali narrazioni sulla donna. Soprattutto quando sono considerate (fintamente) progressiste. O almeno non lo sono per una marxista che non vede alcun progresso nell’asservimento delle donne alla logica dello sfruttamento del capitale, perché l’inclusione a cui miravano le lotte non era un posto di successo nel mercato, né tantomeno un ruolo di potere da sempre ricoperto da maschi. Insomma, il problema non è invertire le logiche del potere permettendo così a noi donne di salire sul trono, ma decostruire il potere e realizzarne uno senza podio.

Ma andiamo per gradi. Dopo diverse pagine dedicate ad Ambra e alle poliedriche immagini femminili in lei condensate, il libro formula più apertamente la proposta di ripartire dal desiderio. Il desiderio non è che una pulsione di libertà intrinsecamente individuale (nella misura in cui ognuno desidera qualcosa e in genere qualcosa di diverso dagli altri), ma allo stesso tempo sociale, perché desiderare ci mette in relazione con l’altro, rivelandosi così un’esperienza dinamica. Il desiderio quindi è per sua natura conflittuale; azzardando, è una parola che potremmo definire enantiosemica, che cioè racchiude due significati opposti: da una parte l’agente del desiderio sei tu che desideri qualcuno, dall’altra desiderare è oggettificante perché fa parte del desiderio proprio la richiesta di essere desiderati.

Il desiderio inoltre è declinabile in più ambiti, da quello sessuale a quello comportamentale, e tutto questo, ovviamente, ha un carattere politico. Se ci fosse permesso di desiderare liberamente, senza essere rinchiusi in un incessante gioco di ruolo né pressati a fare la cosa giusta, probabilmente l’atto del desiderare porterebbe risvolti politici inattesi. Infatti, è perfettamente lecito che l’energia desiderosa sia bicefala, e se come tale fosse accettata restituirebbe la dimensione più preziosa e tenera dell’incontro tra due persone. Soggetti che prima di tutto provano sentimenti, e con le loro emozioni (come l’insicurezza, che la Cuter non esclude mai) sono desiderosi di desiderare e di essere desiderati.

Invece il genere (che non è biologico, ma una costruzione artificiosa talmente persuasiva da essersi inverata, altrimenti non parleremmo di biopolitica) imprigiona l’uomo e la donna entro precise pareti inibenti, che arrivano a contrassegnare la loro identità più profonda, e li descrivono come esseri totalmente definiti da quelle caratteristiche.

Una delle correnti declinazioni del genere è la proliferazione dell’immaginario vittimistico della donna. A Elisa Cuter va riconosciuto il grande merito di svolgere le sue riflessioni incrociando il nostro immaginario collettivo; memore della lezione di Pasolini, tutto il libro pullula di esempi pop che si sono imposti nel senso comune o hanno scatenato schiere di tifoserie social: il movimento #MeToo, il tema del revenge porn, gli “incel”. Assodato che la violenza di genere esiste ed è fenomeno lampante, per chiunque abbia gli occhi per vederlo, certo esiste anche una capillare tendenza a impersonare la donna nelle vesti della vittima. Questo ruolo si è sostituito alla vergogna (forse non del tutto superata), ma rimane un volto femminile fortemente limitante: la vittima ha sempre ragione e per questo viene glorificata, ha bisogno di un risarcimento e di qualcuno che la salvi, ma soprattutto è completamente priva di un campo d’azione. L’identificazione nella vittima personalizza il soggetto e ricerca la risposta nella sola responsabilità individuale. Ed ecco che si ripete il gioco delle parti.

L’altro fenomeno irritante che la Cuter sembra accusare è proprio la continua elusione dell’aspetto sociale del discorso femminile: se il #MeToo ha dato un po’ di coraggio, allo stesso tempo ha creato un gineceo di compianti di donne scandalizzate dall’essersi improvvisamente ritrovate insieme su una barca che affonda. Ma allo sdegno iniziale non è subentrato alcun desiderio, solo una campagna morale in cui ognuna va in cerca del proprio orco. L’appello morale è proprio la soluzione che si intraprende quando ci si sente in posizione di impotenza rispetto alle forze sistemiche, e perciò ci si appella alle coscienze individuali di ogni singola persona coinvolta in una situazione di potere. A parte l’indiscutibile elitarismo, la schiera femminile che ha digitato l’hashtag #MeToo non ha creato una comunità ma una somma di singole esperienze vittimiste. Nella migliore delle ipotesi, tramite l’unico sostegno ricevuto dal movimento, ovvero l’appello al coraggio, queste donne hanno risolto il loro dolore in maniera privata e individuale, oppure (più probabilmente) si sono limitate a sentirsi vittime e quindi ad assoggettarsi al potere.

Trattare di violenza di genere può quindi far male alle donne stesse? Sì, moltissimo. Moltissimo se, come oggi, il parlarne, con tutto quello che ne segue, è vissuto come un risarcimento, una magra consolazione, una pacca sulla spalla da parte delle stesse donne o di uomini mossi da sentimenti di pietà. Tutti questi sono sentimenti passivi, mentre, come ci ricorda Elisa Cuter, il desiderio comprende una parte attiva, porta conflitto e non può essere privatizzato.

L’altra narrazione che sta spopolando si chiamava ieri Ambra e si chiama oggi Emma: il “self-empowerment”, il “credi in te stessa” che poi diventa il “fai della tua vita un brand”, tutto ciò che ti spinge a fare di te, donna (vittima e svantaggiata), una vincente, una scalatrice sociale orgogliosa di produrre capitale ed estrogeni. Tutto questo è femminilizzare, non è il femminismo.

Insomma, le uniche riposte alle questioni “femminili” sembrano chiudersi nel binomio capitalismo-moralismo. Che la dialettica si consumi in questi due spazi non aiuta a ragionare collettivamente sul desiderio – che, va ribadito, non è solo di desiderio sessuale ma anche desiderio politico. Il quarto capitolo del libro si intitola proprio «Il nostro desiderio è senza nome»: un evidente omaggio a Mark Fisher, che ha fatto proprio della difficoltà a semantizzare le nostre necessità e a ricercare un’alternativa al mondo attuale il faro della sua indagine politica. Anche quando siamo consapevoli di cosa desideriamo, dobbiamo chiederci se siamo davvero noi a volerlo, e ci è permesso di capirlo solo assecondando il desiderio: stiamo davvero meglio quando facciamo del nostro corpo un capitale sessuale sul nostro profilo Instagram? Quale che sia la risposta a questa domanda, è certo che il desiderio è una forza relazionale e pertanto non può essere reciso dal discorso collettivo. Ripartire dal desiderio è la risposta di una donna stanca di essere bombardata dalle retoriche individualiste e ansiosa invece di essere in disaccordo con altre donne, pronta a discutere per recuperare una parte attiva, sì, ma insieme. A chi non si accontenta delle gambe pelose su Freeda, e anzi prova un certo fastidio vedendoci solo un grande nichilismo dell’io, questo libro può dire qualcosa di realmente nuovo, emergendo dal magma comunemente chiamato femminismo. Lavorando per sottrazione, togliendosi di dosso cartellini affibbiati dalla società e concentrandosi sui sentimenti, Elisa Cuter apre uno spazio in cui ripartire davvero dal desiderio, il quale attende di essere socializzato.

 

(Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, minimum fax, 2020, pp. 214, euro 16, articolo di Anita Fallani)

 

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