Le promesse (non mantenute) della democrazia sul web
“I partiti digitali” di Paolo Gerbaudo
di Marco Di Geronimo / 8 aprile 2021
È noto che i delusi della politica sono sempre di più: l’astensione è costante in crescita, la crisi della democrazia ha radici profonde. E, dopo una lunga gestazione, ha dato anche un frutto: i partiti digitali, nuove strutture nelle quali chiunque può accedere e portare il suo contributo. La loro promessa è assai poco credibile: grazie alla partecipazione online, tutti saranno padroni dei destini collettivi. Non occorreranno più rappresentanti, corrotti e lontani, perché la democrazia diretta renderà inutile ogni forma di organizzazione e gerarchia. Ma, come ormai è evidente, le cose non stanno proprio così.
È uscito anche in italiano I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme (il Mulino, 2020), l’ultima fatica di Paolo Gerbaudo, sociologo ed esperto di comunicazione politica, direttore del Centro di ricerca sulla Cultura digitale al King’s College di Londra. Si tratta di un’indagine sugli esperimenti politici degli ultimi anni, ma anche sulla crisi della politica; un libro alla portata di chiunque, preziosissimo per chi vuole capire come e perché siamo passati dalle tribune politiche di Palmiro Togliatti alle dirette Facebook di Beppe Grillo.
Gerbaudo traccia in poche pennellate la storia dei partiti e stringe l’obiettivo sul cosiddetto popolo del web, che ha creato e votato i partiti digitali. Fatto l’identikit dell’elettorato, prosegue il ragionamento: come si organizza la militanza digitale? Quale idea di fondo spinge a scegliere certe forme organizzative? Dopodiché, a cascata, l’autore svela le implicazioni più politiche di un partito-piattaforma, in particolare la sua lotta contro la burocrazia e le conseguenze sulle dinamiche interne.
Commentando i limiti e le contraddizioni della nuova forma-partito, Gerbaudo assume il ruolo dello studioso, più che del divulgatore. Il rigore dell’analisi è scandito da tanti richiami ai migliori sociologi (e politologi), da grafici e commenti accademici; ma il linguaggio resta sempre chiaro, «perché le questioni politiche e organizzative qui trattate non sono solo temi per gli addetti ai lavori», precisa nell’introduzione.
Non è semplice descrivere l’ascesa dei partiti digitali (e non a caso l’autore evita di abbandonarsi a continui richiami bibliografici), poiché sono tanti i fenomeni storici da cui traggono origine. In primo luogo il declino dei partiti di massa, messi in crisi dalla fine della società industriale. Poi le nuove tecnologie: già l’avvento della televisione trasforma i partiti in brand che si contendono consumatori (gli elettori). Non è solo il partito televisivo, però, a chiudere le sezioni e i circoli. C’è un secondo motivo: la liquefazione della società. Il grande sociologo Zygmunt Bauman aveva descritto molto efficacemente questo fenomeno. Il mondo perde riferimenti e luoghi di aggregazione, ogni uomo diventa un atomo, lontano dalle vecchie istituzioni. In ambito politico, lontano dai partiti.
Alla sfiducia per il vecchio si somma il bisogno di qualcosa di nuovo. Gerbaudo osserva come la crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 abbia scaricato i suoi effetti su un settore specifico della popolazione: i giovani, iperconnessi, iperformati, ipersfruttati. Quando questo insieme di cittadini-elettori ha manifestato i suoi bisogni, non ha trovato ascolto nella politica tradizionale. Serviva costruirne una diversa, inclusiva. E ancora una volta è stata la tecnologia a offrire la risposta: la rivoluzione digitale ha messo a disposizione nuove piattaforme, sulle quali costruire modelli (illusori) di democrazia diretta.
Dopo quest’ottima ricostruzione storica e teorica dell’ascesa dei partiti digitali, il volume fa un ulteriore passo avanti, riuscendo a illuminarne i due principi cardine. Anzitutto, il modo con cui provano a imitare i social media (grazie ai quali si sono affermati). Ai suoi aderenti un partito digitale sembra un’organizzazione limpida, trasparente, neutrale. Non lo è: ogni piattaforma è progettata secondo modi diversi di intendere la democrazia. L’intermediazione non scompare, cambia solo veste (c’è chi parla infatti di neointermediazione), il che interferisce con l’altro punto cardine della loro linea politica: il partecipazionismo. Spesso ciò che conta per i partiti digitali è solo e soltanto costruire un sistema in cui partecipano tutti, in cui nessuno è ingabbiato dalle cricche dei partiti. Costruito il processo, non serve altro: i suoi frutti saranno buoni per definizione.
L’analisi di Gerbaudo sfocia in una considerazione luminosa: il partito digitale usa la sua piattaforma sia come mezzo sia come fine. Dare forma alla partecipazione non è solo uno strumento, ma lo scopo stesso della comunità. L’identificazione tra metodi e ideali spinge questo nuovo tipo di partito a dichiarare guerra ai luoghi di aggregazione (spariscono le sezioni sul territorio) e soprattutto ai quadri di partito, che invece Gramsci riteneva indispensabili per mediare tra vertice e base.
Ora che con Gerbaudo, finalmente, capiamo meglio quali idee hanno guidato i partiti digitali, è più semplice cogliere perché si sono sgonfiati subito. Sono stati traditi da un’illusione ottica: anziché produrre uguaglianza e partecipazione, le loro piattaforme alimentano divari tra gli iscritti e generano una base più reattiva che attiva. Non solo la base ha canali effimeri per trasmettere le sue opinioni al vertice, ma i livelli effettivi di partecipazione si rivelano scarsi. Dipendono infatti da plebisciti imposti dall’alto, al solo scopo di sondare (e confermare) il consenso della membership.
Il libro di Gerbaudo offre una riflessione tanto semplice quanto profonda dei nuovi partiti. Questa doppia anima è il punto di forza di un saggio dalle molte qualità. Il lettore più affamato di casi empirici non troverà un confronto sistematico dei vari partiti digitali affermatisi in Europa e nel mondo (Movimento Cinque Stelle, Podemos, France Insoumise e i vari partiti pirata), perché il libro mantiene un approccio molto teorico. Ma se dobbiamo individuare un aspetto deludente in I partiti digitali, è la chiusura: Gerbaudo si limita a citare i punti deboli, da correggere, della loro organizzazione, ma non avanza molte proposte concrete. Né risponde alla domanda che si trascina per tutto il volume: Questa nuova forma-partito è migliore di quella tradizionale, che indubbiamente aveva i suoi difetti? Più si procede nella lettura, più l’interrogativo suona privo di una risposta convincente. Si può tuttavia passare sopra a questa sensazione, perché quello di Gerbaudo è comunque un libro che, per chiarezza, originalità e puntualità, merita di essere letto.
(Paolo Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme, il Mulino, 2020, 280 pp., 20 euro, articolo di Marco Di Geronimo)
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