Pastorale coreana
"Minari" di Lee Isaac Chung
di Francesco Vannutelli / 23 aprile 2021
Il grande cinema riesce a raccontare storie universali in cui chiunque si possa identificare sotto una veste solo all’apparenza particolare. Minari ne è un esempio perfetto. Dietro una vicenda di immigrazione e integrazione si nasconde un film che parla di capitalismo, famiglia, tradizioni e di due grandi temi che da sempre caratterizzano Hollywood: la frontiera e il sogno americano.
Negli anni Ottanta, la famiglia Yi si trasferisce dalla California all’Arkansas per inseguire il sogno lavorativo del padre Jacob. Vuole diventare un imprenditore agricolo e rifornire gli oltre 30.000 coreani che ogni anno arrivavano negli Stati Uniti con i suoi prodotti. La vita, fatta di casa su ruote, campi senz’acqua e lavoro durissimo, regala molte meno soddisfazioni del previsto. Il piccolo David – punto di vista del film – osserva la propria famiglia disgregarsi tra le ambizioni paterne e i retaggi tradizionali della nonna, arrivata per dare una mano con il suo bagaglio di corna di cervo e preparati tradizionali.
Lee Isaac Chung ha riversato la propria esperienza personale in Minari e ha ottenuto il film di un asiatico statunitense più apprezzato fino a questo momento. Il gran premio della giuria al Sundance e le sei nomination agli Oscar tra cui miglior film, regia e sceneggiatura originale, fanno del lavoro di Lee un importante esempio di come Hollywood deve e può integrare la diversità culturale all’interno delle proprie produzioni.
È chiaro che il successo senza precedenti di Parasite lo scorso anno abbia portato a un aumento dell’attenzione mediatica verso i cineasti coreani. Minari però non può essere in alcun modo paragonato al film di Bong Joon-ho. Il racconto di Lee potrebbe fare a meno della radice coreana per applicarsi tranquillamente a qualsiasi famiglia.
La difficoltà degli Yi nella nuova vita in Arkansas è la stessa di chiunque si trovi a spostarsi per inseguire un sogno di lavoro. L’ossessione per la terra di Jacob rispecchia il mito individualista radicato nella cultura statunitense ed esasperato dall’edonismo reaganiano anni Ottanta. Quella mitologia del lavoro autonomo a ogni costo, della realizzazione economica, del lavoro per produrre denaro e non benessere.
In Minari l’ostinazione agricola porta il padre a disperdere i risparmi, a lasciare la famiglia senz’acqua, ad allontanarsi sempre di più dalla moglie che non capisce la sua pulsione e vorrebbe che anche lui si accontentasse di quello che hanno. Si può intravedere lo stesso tipo di mania che portava Harrison Ford in Honduras nel quasi dimenticato Mosquito Coast di Peter Weir. E la natura, qui, è dominante, silenziosa e assoluta come nei momenti migliori del cinema di Terrence Malick, senza però alcun tipo di elegia.
Lee Isaac Chung è riuscito a trasformare una storia intima in un ritratto d’epoca, in uno spaccato sociale che non ha bisogno di toni accademici o didascalici. Il registro di Minari si adegua al momento e sa essere struggente e ironico, tenero e spietato con la stessa energia.
Nella corsa continua verso un successo che non si sa bene come sia fatto, la felicità arriva dalle cose più inaspettate. Come il minari, una pianta tipica della cucina coreana, che la nonna ha portato negli Stati Uniti per avere sempre con sé un pezzo di casa.
(Minari, di Lee Isaac Chung, 2020, drammatico, 115’)
LA CRITICA
Con Minari Lee Isaac Chung porta sullo schermo un racconto autobiografico di formazione che contiene un’analisi precisa dell’epica del successo nella cultura statunitense, e non solo.
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