Ipocrisia allo specchio
“Estinzione” di Thomas Bernhard
di Giuseppe Maria Marmo / 12 maggio 2021
Estinzione, l’ultimo romanzo di Thomas Bernhard, pubblicato nel 1986 e edito per la prima volta in Italia da Adelphi dieci anni dopo, è un testo doloroso, una sorta di testamento intellettuale e letterario dell’autore dove la sua abituale intensa orchestrazione del testo risulta – in questo libro più che altrove – irriverente e violenta, quasi nociva per il lettore che tra un sorriso e una meschinità si ritrova nudo di fronte all’abisso che si nasconde dietro alla cortina dell’incanto.
Franz-Josef Murau, il protagonista di Estinzione, è un intellettuale austriaco che vive a Roma, lontano dalla ricca famiglia di possidenti terrieri. Murau è un irregolare, vittima della rigida educazione nazionalsocialista e cattolica che gli è stata impartita in casa, a Wolfsegg in Alta Austria.
Il libro, un lungo monologo interiore di quasi cinquecento pagine, è diviso in due parti, “Il telegramma” e “Il testamento”, entrambe composte da un unico paragrafo. La storia comincia con un telegramma inviato a Murau dalle sorelle, Caecilia e Amalia, che lo informano della drammatica morte dei genitori e del loro fratello maggiore. Proprio a partire da questa tragedia la voce narrante, con una scrittura incerta e trafelata, prova a seguire il pensiero del protagonista.
Il lungo monologo, che pure prende le mosse dall’evento luttuoso, è un disperato tentativo da parte di Murau di risolvere il complesso d’origine che accomuna tutta l’umanità. Il romanzo, di conseguenza, è caratterizzato da un linguaggio nevrotico e concitato adatto a mostrare al lettore il sofferto dispendio intellettuale della voce narrante. Il protagonista infatti attraverso il soliloquio prova a razionalizzare il violento traffico dei suoi pensieri.
Il pensiero, però, non riesce mai a sfuggire alla propria costruzione intellettuale, e per mantenere la sua struttura aleatoria si fa sempre più incoerente. Per giustificare il risentimento che Murau prova ancora nei confronti della famiglia il lutto viene inizialmente traslato nei limiti dell’accettabile; così, al posto del dolore per la perdita dei suoi cari, a traumatizzarlo è il suo essere un sopravvissuto; non la morte in sé quindi ma l’evento sensazionale che lo ha colto impreparato. Già dopo una ventina di pagine però il protagonista confessa lo shock causatogli dalla drammatica notizia e prende atto – per la prima volta nel libro – della propria debolezza e dell’impossibilità, o forse incapacità, di affrontare davvero il dolore.
È proprio questo continuo ondeggiare dall’esaltazione di sé al senso di colpa il tratto distintivo di tutto il romanzo. Il motore esplicito della narrazione però continua a essere il rancore nei confronti della sua famiglia e dell’Austria in generale; l’unico a salvarsi è lo zio Georg, fratello del padre, che per primo ha iniziato il giovane Murau allo studio e all’arte, guarendolo dall’annientamento intellettuale che i genitori avevano attuato nei suoi confronti.
Nel corso di Estinzione il monologo si fa sempre più vacuo e prova a estinguere tutto, compreso il passato. Il pensiero si rifugia in luoghi ormai vuoti, andati via per sempre, come i ricordi d’infanzia, perché come afferma Murau: «Crediamo che noi si sia arrivati al punto di essere una macchina pensante, ma non possiamo fidarci del pensiero di questa nostra macchina pensante. In fondo, essa lavora incessantemente contro la nostra testa, […] produce incessantemente pensieri dei quali non sappiamo da dove siano venuti e a che fine siano pensati e in quale connessione si trovano». Siamo dunque alla svolta: Murau comprende che l’essere umano è solo un pensatore sconfitto, è impossibile comprendere gli altri così come è impossibile comprendere noi stessi, e proprio per questo chi non sa nascondere il proprio pensiero diventa pazzo e soccombe nella maniera più infelice e terribile. A imperare dunque è la meschinità e ciò vale per tutti, indistintamente.
Estinzione si pone proprio come il testo ultimo, nato e concepito per estinguere definitivamente Wolfsegg e il passato e il presente che essa contiene; è la scrittura che si impone per annientare, in tutte le sue incongruenze, il complesso di origine dell’umanità.
Ecco perché Murau dopo aver letto il telegramma tira fuori dal cassetto della sua scrivania una foto dei suoi genitori, una del fratello Johannes e una delle sue sorelle, le osserva e torna col pensiero alla sua infanzia, non riuscendo a fare a meno di pensare alla natura diabolica delle persone, alla debolezza e all’ottusità del padre, all’inconsistenza del fratello, alla perfidia della madre e al beffardo disprezzo delle sorelle. Riflettendo su tutto questo si disgrega, e nel ricordare la complicità della sua famiglia con le SS e il Terzo Reich annienta con il deflagrare delle parole e del racconto la dolorosa realtà.
L’incoerenza del mondo è data dal velo di incanto che maschera la vita: anche il funerale viene descritto come un teatro a cielo aperto in cui tutti ipocritamente mentono sciorinando parole di commiato e banalità. Lo stesso Murau – preoccupandosi di continuo del ruolo che deve interpretare nel corso della cerimonia – non fa altro che recitare. Il protagonista si sente incommensurabilmente colpevole di essere come tutti gli altri e, benché sia attratto da chi vive di ipocrisia e gode dei frutti della propria meschinità – come Spadolini, un suo amico arcivescovo e allo stesso tempo amante della madre –, prova comunque a rifiutare qualsiasi forma di bassezza annientandosi attraverso la sua verbale furia liquidatoria. Innalza così la sua voce a grido collettivo e mostra a tutti quello che qualunque essere umano prova a nascondere: le quotidiane meschinità di ciascuno di noi. Estinzione è quindi l’ipocrisia che si guarda allo specchio e per salvarsi specchiandosi si estingue.
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