Maschere della letteratura contemporanea
“Sangue di Giuda” di Graziano Gala
di Giovanni Bitetto / 24 maggio 2021
Scrittore del Sud è un’etichetta ambivalente: da un lato ti dà un’ottima base da cui partire, un orizzonte su cui muoverti, a maggior ragione se sei un esordiente; dall’altra può risultare fuorviante, fallace come può essere solo una cesura univoca su un campo eterogeneo. Perché a ben guardare le scritture del Sud sono di natura molteplice, soprattutto negli ultimi anni. Molti scrittori contemporanei incrociano il patrimonio folklorico del Meridione con il proprio immaginario o con un immaginario affine o preso in prestito: basti pensare alla Sicilia gotica e americanissima di Orazio Labbate, debitrice tanto di Bufalino quanto di Faulkner o del crime di True Detective, oppure le geometrie interiori di Veronica Galletta, che accennano un patrimonio culturale senza strillarlo, o ancora la Puglia cinematica di Omar Di Monopoli e il Salento dal sapore gore di Andrea Donaera. Gli approcci sono diversissimi, e in questo ventaglio possiamo salutare l’arrivo di Graziano Gala con il suo Sangue di Giuda (minimum fax, 2021): un’opera che dà al Meridione un sapore nazionalpopolare e iperletterario al tempo stesso.
Nazionalpopolare perché Gala si lega alle memorie perturbanti del pop nostrano: Giuda è un vecchio solitario a cui hanno rubato il televisore, lo enuncia al commissario del paese, un anonimo agglomerato di case nel «Sud del Sud dei santi», per dirla con Carmelo Bene. Da qui partirà il monologo di Giuda che, stravolto dal furto del televisore, come se esso costituisse la sua bizzarra madeleine, ripercorrerà la sua vita alle prese con un padre difficile, con una figlia con cui intrattiene un rapporto di odio-amore, con il suo nome, quel “Giuda” che in realtà è un appellativo, uno dei tanti dati al Sud, ma che cela il buco nero del suo passato, il vero nome che il protagonista, alle prese con la palude della sua biografia, cerca di ricordare.
Ma si diceva del pop nostrano: la storia di Giuda è visionaria, un miscuglio di donchisciottesco e grottesco, la psiche di Giuda è abitata da emanazioni del microcosmo televisivo nazionale, Pippo Baudo è il suo animale guida, la sagoma che nel racconto stravolto gli fa da strambo Virgilio. A questo si aggiunge la figura di Ferlinghetti, vicino di casa fra il vero e l’immaginato che ricalca il poeta beat. E qui siamo dalle parti dell’iperletterario, perché Gala non si limita a qualche citazione colta, ma si addentra in un territorio ben più spinoso: l’ambizione dell’autore è assemblare una lingua originale.
Sangue di Giuda, memore della tradizione dialettale, dell’orizzonte del racconto orale e della dimensione del racconto teatrale, è narrato assecondando il lievitare di un impasto linguistico a metà fra il pugliese e il campano, un idioma sghembo che localizzi l’azione nel cuore del Meridione ma allo stesso tempo impedisca al lettore di delinearne i confini, in modo da situare l’orizzonte della narrazione nelle lande assolate di un paesaggio senza nome e sul palato di un narratore inaffidabile come Giuda.
L’incredibile vivacità linguistica lascia saltare all’occhio due cose: il Sud raccontato da Gala è artificioso e barocco, eppure colpisce nel suo manierismo, è un diorama che fa da fondale alle vicende del protagonista che ha un sapore ispanico, reminiscenze del paesaggio brullo del Don Chisciotte e degli spazi angusti ma evocativi di La vita è sogno di Calderón de la Barca; l’altra riguarda Giuda, il personaggio a cui ruota l’opera, e che allo stesso modo si fa portatore di questa nuova lingua, un idioletto masticato dalla sua gola, formulato nel suo cranio, fermentato alla luce di diverse e contrastanti esperienze, sul modello di un altro recente e fortunato matto-saggio delle lettere nostrane quale Bonfiglio Liborio dell’omonimo romanzo di Remo Rapino.
Proprio Giuda è il prisma attraverso cui leggere l’opera. Giuda è un personaggio donchisciottesco, preda di fantasie selvagge, malumori repentini, ma anche slanci utopici o comici, una maschera da commedia che, pagina dopo pagina, si trasfigura in un tipo psicologico mai coeso, ma dannatamente umano. La sua lingua insaporita di termini forbiti celati nell’amalgama dialettale ne è una spia: Giuda è capace di travisare la realtà circostante quanto di immergersi con dolorosa lucidità nelle memorie del suo passato, lì dove si trovano i traumi che lo hanno portato allo spaesamento del presente.
Sangue di Giuda si gioca sul doppio binario dell’intreccio accattivante e del tour de force linguistico riuscendo in entrambi in campi a dirci qualcosa di nuovo: da una parte rinnova l’immaginario meridionale attraverso il filtro di una psicologia visionaria a metà fra il genio e il matto, dall’altra opera una sperimentazione sulla lingua che dal calco orale si trasfigura in un idioma mai parlato e, fino ad ora, mai scritto, ampliando le categorie cognitive sia di chi mastica il dialetto sia di chi, a digiuno di idioletti del genere, si approccia a questa lingua artificialissima e viva al tempo stesso. Un sacco di carne al fuoco, dunque, e dal primo romanzo di un giovane autore non si può chiedere di meglio.
(Graziano Gala, Sangue di Giuda, minimum fax, 2021, 171 pp., euro 16, articolo di Giovanni Bitetto)
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