La geografia emotiva di Germana Urbani
A proposito di “Chi se non noi”
di Giovanna Nappi / 1 giugno 2021
Il Delta del Po accoglie tutte le diramazioni fluviali pronte a sfociare nell’Adriatico settentrionale e occupa una buona parte del territorio che prende il nome di Polesine: nella provincia veneta, dove la vita è scandita da necessità e tradizioni longeve, Maria, la protagonista del romanzo Chi se non noi, di Germana Urbani (nottetempo, 2021), procede sospinta dai movimenti dei sogni che da bambina ha iniziato a fabbricare per il proprio futuro: catturare la bellezza della realtà, trasformarla in meglio, diventare architetto.
Al momento della narrazione, Maria si divide tra Ferrara (dove vive), Bologna (dove lavora all’interno di un importante studio di architetti), e il Delta del Po (dove torna ogni fine settimana da Luca, storico fidanzato). Nel ritmo ormai consolidato di impegni lavorativi e tragitti in auto per tornare a casa, una frizione ostacola quell’andamento frenetico ma tutto sommato lineare.
La relazione con Luca è meno solida di quanto si potrebbe supporre tra due persone che condividono la vita da un decennio e procede infatti a singhiozzi: non, come ci si aspetterebbe, per i problemi tipici di una relazione amorosa, ma per ragioni più profonde e oscure. Maria è da sempre la più slanciata, la più propositiva, la più generosa; Luca il più cauto, il più conservatore, il più doppio. Questa divergenza di carattere, che li ha condotti al punto dove sono, è il sintomo di un meccanismo poco oliato ma, in qualche modo, rodato, come quando si è abituati ad aspettare dieci minuti ogni mattina prima che l’automobile si decida a partire.
Questa forma di compensazione si traduce nel costante tentativo di Maria di mediare tra le loro diversità: lei deve spingersi laddove Luca nemmeno guarda, deve offrirgli un’opportunità a cui lui non ha neanche pensato. Deve, quindi, prevedere tutte le variabili e pianificare le mosse future. Offrirgli il suo stesso lavoro, ad esempio, per permettere a Luca di abbandonare l’idea di continuare a vivere nella provincia ed emanciparsi da quell’esistenza; rinunciare quindi al suo sogno; optare per soluzioni di serie B per sé stessa in modo che bisogni e richieste trovino il proprio equilibrio.
Come in ogni viaggio dell’eroe che si rispetti, Maria si trova suo malgrado costretta a varcare la prima soglia, che coincide con la decisione di Luca – piombatale addosso senza alcun preavviso – di interrompere la relazione. Sebbene non ci sia alcuna straordinarietà nella messa in scena di situazioni come questa, già ampiamente sviscerate da scrittori e scrittrici, è nella gestione di un evento che assume fattezze quasi luttuose che si scorge la voce decisa dell’esordiente Germana Urbani.
Urbani disegna una mappa emotiva nella quale le coordinate sono fornite dai sentimenti che, oramai parte integrante del paesaggio e da questo quasi fagocitati, evolvono e straripano come le acque di un fiume. Per spiegare quella natura tumultuosa si serve di una memoria episodica e visiva, che si muove sollecitata da stimoli esterni: il ricordo di uno scatto rabbioso di Luca, una rivelazione sul passato della famiglia sono resi sulla pagina attraverso la sovrapposizione di interiore ed esteriore. Il personaggio di Maria si adatta allo spazio che abita e lo fa proprio, rendendolo paludoso, torbido, scostante.
Nella ricostruzione dei fatti, però, la continua intromissione del passato nel presente narrativo detta il ritmo di lettura rischiando di ostacolarne il flusso. Alcuni salti temporali sono troppo sviluppati a discapito della storia primaria, che perde di efficacia. Il racconto della vita di Maria è già abbastanza solido senza la necessità di introdurre sottotrame, come quella relativa alla figura di sua madre: in un episodio particolarmente riuscito, alla protagonista vengono svelate le origini della donna, ma l’ampio spazio a esso dedicato appare slegato dal resto, poco efficace nel disegno generale del romanzo.
Chi se non noi è rivelatore e trascinante. In un climax di follia e dolore che assume contorni sempre più pericolosi, è convincente nell’esplorare una femminilità autentica, pregna di vergogna, di vendetta, di sofferenza, di morbosità.
«È questo il punto? Davvero? Solo questo? Farfalle nello stomaco, endorfine a mille e sei fuori? Ma come è possibile? Come può essere così?
Singhiozzi. Le spinte muovono lo stomaco. Devo andare in bagno. Mi tiro su. Dio, quanto mi fanno male le gambe, mi alzo in piedi e una scossa mi percorre dalla nuca all’ano. Puttana!
Apro la porta del bagno. Mi investe un tanfo acre come di pomodori neri di muffa. Schiudo la finestrella e getto l’occhio accanto al water. Assorbenti. Ho dimenticato di buttare la spazzatura. Non ricordo quando passa, devo guardare il calendario della differenziata.
Faccio pipì, mi brucia. Ho le mutande gialle e puzzano di urina. Dovrei lavarmi. Mi piego in avanti in attesa di decidere. I gomiti sulle ginocchia, le mani sulle tempie. Voglio solo dormire, dormire per tutta la vita. Guardo il lavandino. In bocca ho il pantano. Evito lo specchio, esco».
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