Aspetta primavera, Soncini
“L’era della suscettibilità” di Guia Soncini
di Giulia Marziali / 23 settembre 2021
L’era della suscettibilità, da poco edito da Marsilio, è un titolo di cui l’autrice Guia Soncini è anche complemento di specificazione, riferito ovviamente al sostantivo suscettibilità. Per spiegarci che razza di mondo fragile e malmostoso stia diventando il nostro, pieno di parolacce inglesi come victim blaiming, trigger warning o safe space, Soncini parte infatti dalla sua esperienza – raccontata, in verità, in maniera piuttosto divertente – di vittima suscettibile della suscettibilità altrui.
Guia Soncini è una giornalista – di costume, si sarebbe detto un tempo, ma non so se si dica ancora – che per lavoro si occupa di opinioni, le sue e quelle degli altri, e un’incallita frequentatrice di quel gorgo inospitale e talvolta avvilente che sono diventati i social network.
È una che ama provocarle, le classiche tempeste nel bicchier d’acqua, magari con una battuta sarcastica su Twitter che sarà attaccata ancora prima che qualcuno si faccia una domanda su cosa davvero intenda. Perché più di tutto a Soncini – esattamente come a quelli che vestono il proprio neonato di rosa e aspettano al varco chiunque dia per scontato che sia una bambina, aneddoto fra i molti riportati inel libro – piace «rompere i coglioni». «Siamo dispettosi, prima ancora che suscettibili. Ci piace mettere piccole trappole, e vedere (non troppo di nascosto) l’effetto che fa.»
La sua tesi di fondo, verificata sul campo, è che sempre più persone, sui social ma anche fuori, abbiano un po’ perso il senso della realtà (oltre che dell’umorismo), e che questo si riverberi in maniera molto negativa sulla società intera. Una tesi banale? Niente affatto, data la frequenza con cui ci tocca assistere, esterrefatti, ai litigi sotto banalissimi post Facebook fomentati da amici che ritenevamo, almeno finché non li abbiamo aggiunti sui social, persone intelligenti o quantomeno spiritose.
Ma siamo sicuri che il dissenso, la contestazione, l’aumentata e in certi casi sicuramente esasperata sensibilità su alcune tematiche costituiscano una cancel culture?
L’aspetto che trovo più debole di questo libro (sì, è un modo carino per dire che lo trovo molto debole come saggio, anche se molto divertente e brillante come docu-fiction dei tempi che corrono) è che questa domanda non venga mai posta, che si mescolino ambiti differenti e che si parli di «morte del contesto», di «feticismo della fragilità», e di preponderante «epistemologia identitaria», come «alcuni tra i fenomeni più evidenti e dirompenti degli ultimi anni, con effetti pericolosi e grotteschi che in altri secoli erano occasionale damnatio memoriae e ora sono quotidiana cancel culture».
Mi chiedo, infatti: siamo sicuri che quello che l’autrice definisce nell’introduzione «quotidiana cancel culture» non sia un modo un po’ paraculo per etichettare quel filone giornalistico – anch’esso, se vogliamo, lamentoso-vittimistico – del “non si può più dire niente, signora mia”?
Insomma, siamo sicuri che una Valeria Parrella che, intervistata per lo Strega 2020, ridacchia giustamente all’annuncio che «dopo di lei ci sarà Augias per parlare di cos’è cambiato nella letteratura col #MeToo» e la carriera bruciata di Kevin Spacey accusato di molestie possano davvero stare insieme nello stesso discorso, e apparentemente sullo stesso piano?
Perché quello della cancel culture, specialmente in America, «gli Stati Uniti della Suscettibilità», è un problema molto serio, come raccontava molto bene già agli inizi degli anni Novanta Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo(in Italia pubblicato da Adelphi). Mentre invece non mi sembra poi un bavaglio così pericoloso alla libertà d’opinione, nè il prodromo ad alcun tipo di sindrome maccartista, che in Italia qualcuno abbia iniziato a far notare ai personaggi pubblici che certe uscite si possono evitare, e che no, scrivere una cosa sulle pagine social non è esattamente come dirla al bar.
Al contrario, mi fa pensare che il dibattito pubblico sia tutto sommato in salute, visto che si pone delle domande, senza che però – lo dico con sollievo – alcun virologo di fama abbia perso il posto di lavoro per l’uscita sulle «donne bruttine che potrebbero curarsi un po’ di più», che alcun direttore di quotidiano sia stato licenziato per esternazioni poco edificanti sugli immigrati, o persino che qualche leader politico sia stato costretto a sparire dalla circolazione per essersi lasciato andare a constatazioni poco eleganti sull’avvenenza di qualche signora.
Che poi la smania di apparire buoni e giusti sui social ci porti a eccessi grotteschi o che basti un cancelletto “bodypositive” per titillare la nostra volontà di identificazione o compiacere il nostro vittimismo (“Siete grasse? Siete bellissime, ma compratevi la nostra crema, anche da grasse dovrete pur idratarvi. Avete l’acne? Siete bellissime, ma compratevi il nostro shampoo, anche con ripugnanti facce brufolose dovrete pur lavarvi i capelli”), semmai ha a che fare con quello che Irene Graziosi, in un articolo illuminante, chiama «attivismo performativo». Qua il dibattito delle opinioni c’entra ben poco, e c’entra invece moltissimo la capacità delle grandi aziende di capire le nicchie di mercato aperte dai nuovi fenomeni culturali e fare quello che sanno fare meglio: sfruttarle per farci dei soldi. A spese dei poveri polli, ovviamente.
Parlando di polli e fagiane, e per capire meglio quello che intendo, consiglio il superbo reportage di Michele Masneri per il Foglio sullo scontro fra un improvvido giornalista boomer (proprio lui) e una nota imprenditrice e influencer, una di quelle che, come racconta Soncini, sa benissimo che il flame, il litigio, fa guadagnare follower (e quindi, ancora, soldi).
Premesso dunque («la premessite è un’arte: se la conosci non ti uccide» afferma Soncini) che non condivido l’uso un po’ generico del termine cancel culture, che in Italia è molto spesso il rifugio di coloro che nel discorso pubblico vorrebbero continuare indisturbati a usare espressioni offensive senza essere tacciati nel migliore dei casi di maleducazione e nel peggiore di discriminazione, secondo me L’era della suscettibilità fotografa efficacemente che tipo di dibattito si sia innescato oggi su questo tema, limiti compresi. Un buon documento di questi tempi confusi e poco maneggevoli e un omaggio, soncinesco, alla Prevalenza del cretino di Fruttero & Lucentini che, come già il suo modello, fa ridere, ma mica troppo.
In questa guerra senza quartiere fra opposti estremismi, infatti, l’unica categoria per la quale rattristarsi davvero è quella degli unhappy few che, potendo disporre di un senso dell’umorismo degno di tale nome, sono costretti a subire la debordante iperattività dei censori della domenica, dei «cancelletti indignati», che non capendo una battuta sulla luna vanno a pignolare sul dito.
Un’esigua e sparuta categoria che si ritrova di quando in quando a chiedersi, avvilita, se siano pazzi, a non cancellarsi immediatamente da ogni tipo di social network. E poi però – parafrasando Woody Allen – a loro le uova chi gliele fa?
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