Un giallo di Buenos Aires
“La morte arriva in ascensore” di María Angélica Bosco
di Claudio Bello / 27 settembre 2021
La Buenos Aires dei primi anni Cinquanta è un luogo indecifrabile, edificato su strati sempre più sfuggenti a seconda della profondità. Tra le sue strade si muovono individui dall’aria sinistra – che non sono quello che appaiono, o che dovrebbero essere. Siamo all’alba del colpo di stato contro Perón, l’Argentina è in bilico ma fa finta di non saperlo. Ecco allora che un palazzo normale, o meglio, borghese, borghesissimo di calle Santa Fe nasconde una serie di cuori oscuri, un confusionario agglomerato di bugie, segreti, rapporti illeciti. E se questo palazzo non è altro che un grande nascondiglio collettivo, non sorprende che dentro l’ascensore – che è un po’ il suo inconscio in movimento – si celi il cadavere di una donna. A trovarlo, di notte, è Pancho Soler, un latin lover di ritorno da una serata movimentata, che si spaventa, non crede ai suoi occhi; poco dopo arriva anche Adolfo Luchter, un medico tedesco dal carattere glaciale, e presto entra in scena tutto il caos di poliziotti, curiosi, sospettati. Gli abitanti del palazzo si svegliano: c’è un uomo malato, e poi un altro di origini bulgare e sua sorella, e ancora una ragazza emancipata e in parallelo una donna sottomessa. Soprattutto c’è la donna nell’ascensore – si chiama Frida Eidinger, si scoprirà –, che non viveva lì ma possedeva le chiavi. In questo microcosmo di ansia e sospetti, emerge chiara la borghesia argentina della capitale, in tutta la sua simulata rispettabilità.
Questa Buenos Aires tanto criptica è quella di La morte arriva in ascensore, romanzo del 1955 di María Angélica Bosco; si tratta della prima uscita della nuova collana di Rina edizioni curata da Luciano Funetta, Água Viva, dedicata alla riscoperta di autrici internazionali inedite o dimenticate in Italia. Parliamo in effetti di una tra le più significative scrittrici argentine del Novecento, la cui vita è una vicenda emblematica di difficoltà ed emancipazione. Come raccontato nella bella postfazione di Francesca Lazzarato, Bosco, dopo due raccolte di racconti giovanili, aveva abbandonato la carriera di scrittrice per il matrimonio e una tranquilla esistenza borghese – simile in apparenza a quella dei suoi protagonisti. Poi però arrivano l’amore per un altro uomo, lo scandalo e la separazione dai figli, la morte del marito, la povertà. Per andare avanti Bosco deve reinventarsi, o meglio, fare un passo indietro: tornare alla scrittura. È significativo che il suo romanzo d’esordio, La morte arriva in ascensore, sia proprio un giallo, genere che nell’Argentina dell’epoca era appannaggio degli scrittori uomini. La scrittura diviene così un guanto di sfida, oltre che un mezzo per emanciparsi, per raggiungere un’indipendenza che sembrava irrimediabilmente negata.
Il romanzo di Bosco si inscrive in una tradizione all’epoca già consolidata – il giallo argentino –, che nel tempo continuerà ad avere rilevanza: si pensi ad alcuni romanzi di Ricardo Piglia, che non a caso firma il prologo a questa edizione. Nel 1942, per esempio, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares avevano pubblicato Sei problemi per don Isidro Parodi, una raccolta di racconti gialli che testimoniava amore e insieme parodiava il genere dell’indagine a enigma, con un indimenticabile detective-carcerato-barbiere come protagonista. I due scrittori dirigevano anche la collana poliziesca di successo El Séptimo Círculo per l’editore Emecé. Dopo aver vinto un concorso indetto dalla casa editrice, La morte arriva in ascensore venne pubblicato proprio in questa collana. E il romanzo di Bosco un certo gusto per il mistero tipicamente borgesiano lo possiede, anche se di certo non lo si può ridurre a questo. Come non lo si può per simmetria ridurre a giallo a enigma classico, sul genere di Agatha Christie.
Alla scrittrice inglese, che pure Bosco diceva di non amare, il romanzo in realtà si richiama spesso: basti pensare alla struttura dell’omicidio in un luogo chiuso e circoscritto – in questo caso un intero palazzo – e al finale in cui il colpevole viene smascherato dall’investigatore durante un incontro chiarificatore con tutti i sospettati, in pieno stile Poirot. Come in Agatha Christie – ne è un esempio Dieci piccoli indiani – anche in La morte arriva in ascensore non ci sono, in fondo, innocenti; tutti hanno qualche colpa da espiare, perfino le vittime. Ma quello di Bosco non è un enigma intellettuale, fine a sé stesso, con detective e colpevoli geniali che si scontrano a furia di trovate e colpi di scena. Tutto è più rarefatto, vivo, squallido e al contempo toccante. Nei personaggi si rivelano motivazioni e topos dell’altra grande scuola giallistica, quella che potremmo definire simenoniana. La morte arriva in ascensore è in fondo un giallo esistenziale; la scrittrice, al pari di Simenon, prova empatia per i suoi uomini e le sue donne, soprattutto quando sono bugiardi e giustificati nelle proprie (turpi) azioni da spinte personali. I personaggi di Bosco possiedono uno spirito tormentato – o meglio, sconnesso, incoerente – che è forse lo stesso di Buenos Aires, dell’Argentina intera.
Spiccano in particolare le figure femminili, a volte assoggettate al dominio maschile, altre in preda a slanci di emancipazione, ma sempre molto reali, nitide soprattutto nelle loro miserie, nei loro piccoli sotterfugi. Il tema del segreto, del non detto, ritorna in continuazione, come ideale malefico e onnipresente di una società corrotta, e come minuscolo motore di ogni storia privata, non appena si concretizza nella più prosaica realtà. D’altronde sarà proprio un oggetto banale, di uso comune (che ovviamente non sveliamo), a sbrogliare la matassa del giallo, a mostrare la verità spogliata da ogni segreto, nella sua in fondo ordinaria, mediocre evidenza.
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