Dal vangelo secondo Archy
“I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni
di Alberto Paolo Palumbo / 11 ottobre 2021
Secondo il filosofo e pedagogo Martin Buber, «gli occhi di un animale hanno il potere di parlare un grande linguaggio». Attraverso gli animali si possono raffigurare non solo i sentimenti umani, ma anche denunciare le storture della realtà. Lo sguardo animale, infatti, parla un linguaggio universale, espressione dell’uomo e dei suoi dilemmi esistenziali.
Oltre alle favole di Esopo, due esempi molto validi di storie con animali antropomorfi sono: Il vento tra i salici (1908) dello scozzese Kenneth Grahame, che attraverso il mondo animale mostrava uno spaccato dell’Inghilterra di Edoardo VII con tutte le sue divisioni sociali, e La fattoria degli animali (1945) di George Orwell, che denunciava, invece, la deriva autoritaria dello stalinismo.
In questo panorama si inserisce anche I miei stupidi intenti del giovane Bernardo Zannoni (Sellerio, 2021), un’opera prima che ha raccolto un buon successo di critica ed è stata paragonata a La collina dei conigli di Richard Adams. Il romanzo ha per protagonista una faina, Archy, rimasta orfana di padre a seguito di un furto di galline fallito. Divenuto zoppo per una caduta da un albero, il protagonista viene ceduto dalla madre Annette all’usuraio Solomon in cambio di una gallina. Quest’ultimo, una volpe, lo tratterà inizialmente come suo schiavo per poi a poco a poco farne un suo discepolo: Archy, infatti, scoprirà grazie a lui l’esistenza di Dio, la crudeltà del mondo e la morte, ma soprattutto diventerà uomo.
Dio, crudeltà, destino: tre motivi tipici di una storia esistenzialista – non per niente l’editore menziona Albert Camus nel descrivere il romanzo in quarta di copertina – ma anche di una narrazione a sfondo teologico. Elementi, infatti, che molto si addicono a questo tipo di racconto sono il narratore in prima persona, adatto a rappresentare la lotta interiore di Archy con i suoi dubbi su Dio e la morte, ma anche il taglio metanarrativo, che riguarda sia Solomon, che al protagonista detta le sue memorie, che Archy stesso, che farà la stessa cosa con l’istrice Klaus. La metanarrazione, infatti, serve a Solomon e ad Archy da un lato a rendere esemplari le loro vite, dall’altro a cercare di attuare «l’ultimo, stupido intento: scappare, come tutti, dall’inevitabile», ovvero cercare inutilmente d’imporsi sul proprio destino.
I miei stupidi intenti è un vangelo umano con protagonista un animale; ma non uno qualsiasi, una faina: una specie solitaria, prettamente notturna, così come l’uomo, solo e abbandonato al suo destino e in balia dell’ignoto della morte. La storia di Archy ricorda, infatti, quella di Gesù: non in senso cristiano, ma laico. Il Gesù che viene in mente è in particolare quello ritratto dal portoghese José Saramago in Il vangelo secondo Gesù Cristo. Nel romanzo del Premio Nobel Gesù è una figura umana, piena di dubbi e paure sulla sua esistenza, con un Dio che si rivela distante e crudele. Il martirio del protagonista diventa il momento dell’accettazione della sofferenza e del dolore come fondamenti dell’umanità.
Come il Gesù di Saramago, anche Archy, nel corso della sua vita, impara che «forse era questa la differenza fra un uomo e un animale; io non avevo pensato, e adesso ne pagavo le conseguenze». L’essenza animale, infatti, è vista come appartenente all’età dell’oro, dell’innocenza, mentre l’evoluzione “umana” rappresenta una maturata consapevolezza da parte del protagonista della crudeltà e del male nella sua esistenza.
Archy inizia a farsi uomo nel momento in cui sperimenta il sesso e l’amore con la sorella Louise, quando conosce la violenza, la solitudine, la paura, ma soprattutto la fame, l’unico sentimento che «assottiglia il mondo a un unico bisogno. Non esiste pietà, o amore, o ancora la paura, il dolore, la vergogna; non esiste niente all’infuori di quella spinta cieca, che è sopravvivere, mangiare».
L’istinto di sopravvivenza permette ad Archy di confrontarsi con la crudeltà e la spietatezza del mondo. Nel soddisfare i suoi bisogni, la faina si dimostra sempre più crudele verso gli altri. La prima vittima della crudeltà di Archy è Gioele, il cane di Solomon, che circuirà con la promessa di rivelargli la sua vera origine in cambio dell’aiuto nel conquistare la faina Anja. Il protagonista si dimostra cinico anche verso la famiglia che costituirà con quest’ultima, che infine abbandonerà Archy con i cuccioli per non morire di fame.
In realtà, però, Archy sa che «il mondo non odia nessuno, e se è crudele, è perché noi siamo crudeli. Dio non aveva commesso altro errore se non quello di averci voluto partecipi, uomini e animali insieme». Egli impara la violenza e la perpetra negli altri perché è dagli altri che ha ricevuto la crudeltà, ma allo stesso tempo comprende la morte: se prima «nel mio esistere», afferma, «la escludevo a priori, abbandonata dietro l’evolversi dei miei giorni», ora è diventata «l’unica anomalia in un disegno che mi era già davanti agli occhi».
Archy, che pensa inizialmente di possedere le redini del suo destino, presto giungerà alla consapevolezza che tutto il male che ha ricevuto e commesso è parte di «un percorso solitario, nei meandri di se stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla. È l’anima di questo mondo, la sua forza più grande; nessuno chiede di nascere, ma nemmeno di andare via». La faina, come gli altri animali – ma anche gli uomini – è costretta da Dio a lottare per difendere qualcosa – la vita – cercando di sottrarla alla morte. Il protagonista, però, si rassegnerà a vivere un’esistenza inutile, nella quale ogni sforzo di restare a galla sarà vano, e ad accettare l’idea della fine.
Sebbene sia una storia di animali, I miei stupidi intenti è un romanzo che contiene tanta umanità: un’umanità che pensa di governare la propria esistenza, che lotta incessantemente per la vita, ma che è costretta a soccombere alla morte. Umana è anche la parola, quella di Archy, che come un novello Cristo ha provato sulla sua pelle la crudeltà del destino e tenta di raccontarla per consolarci di fronte all’ignoto della morte.
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