Tutto l’orrore delle mappe
“Negli States con Stephen King” di Orazio Labbate
di Claudio Bello / 19 ottobre 2021
Secondo Michele Mari, una delle caratteristiche che rendono Stephen King un grande scrittore dell’orrore è la sua «poetica delle cose, fondata sul presupposto della reificazione del male»: nei suoi libri tutto – anche ciò che immagineremmo più vago e indicibile – è concreto, preciso, tangibile. King unisce un alto grado di speculazione fantastica a un realismo minuzioso, quasi documentaristico, fatto di «frigoriferi coperti di decalcomanie, cruscotti, portafogli bisunti, flaconi di trementina». Sembra che siano gli oggetti stessi, e i personaggi, i luoghi, a generare il male, e non viceversa. Forse dipende da questo la costante produzione di film basati sulle sue opere (è come se King, con la sua scrupolosità, desse continuamente indicazioni a registi e scenografi); forse è per questo che leggendolo il lettore prova un senso di immedesimazione a tratti insopportabile.
Per parlare dell’ultimo libro di Orazio Labbate, Negli States con Stephen King (Giulio Perrone Editore, 2021), si può partire proprio da qui, dal legame morboso tra male e mondo reale. L’autore siciliano, infatti, ha scritto per la collana Passaggi di dogana (dedicata a insolite guide di città che seguono le orme degli scrittori, e non solo, che vi sono connessi) quella che è in apparenza una mappa dei luoghi, reali e immaginari, dei libri di Stephen King. Un’operazione interessante in primis per il suo carattere di topografia fantastica: d’altronde, chi potrebbe dire che Derry, o Jerusalem’s Lot, non esistono? Un lettore affezionato del Re, sfogliando le pagine di Labbate, si sentirà pervaso da una strana nostalgia, dall’emozione di un ritorno a luoghi familiari anche se inventati. Il “luogo”, si diceva prima, non è per King un semplice contesto dove far “accadere delle cose”; il luogo è parlante, agente, decisivo. Derry, la città di It, ne è un esempio calzante. Il romanzo più importante di King (quello che sintetizza tutta la sua opera e forse tutta la letteratura dell’orrore) è soprattutto la storia di una città maledetta: il resto – il pagliaccio, i perdenti, le fogne – deriva da qui. È un topos dell’horror, in effetti, quello per cui i veri protagonisti sono sempre i luoghi. Si pensi a Hill House, la «casa schifosa» ideata da Shirley Jackson (grande modello di King), ma anche allo stesso H.P. Lovecraft, per cui a essere infetto, maledetto, è l’universo intero.
Quello che però rende Negli States con Stephen King qualcosa di più di una guida per turisti del macabro e del fantastico è il tono doppiamente metanarrativo: stiamo parlando infatti di un libro che parla di libri, ma che vuole anche essere esperienziale. Labbate fa agire all’interno dei luoghi kinghiani un fantomatico «viaggiatore», che altri non è che il lettore stesso. Il patto che lo scrittore stringe con noi è semplice: io favorisco la tua immedesimazione, lettore, ti faccio diventare, se mi seguirai, un personaggio dei romanzi di King, e solcare i suoi luoghi, affrontare i suoi mostri; tu, però, dovrai fare attenzione, limitarti a guardare, non toccare nulla. Dovrai evitare, insomma, di farti risucchiare dal male intrinseco in ogni cosa. Ecco che Labbate consiglia, mette in guardia, come se il viaggio del lettore fosse reale, e molto pericoloso:
«Meglio che il viaggiatore non indietreggi. La contemplazione non permette al demone di alzarsi e raggiungerlo. Il mistico non deve avere accesso alla sfera prosaica del conosciuto.
Il prisma di quel diavolo femmina cadente è infatti immaginazione mostruosa godibile alla vista seppur di una crudeltà raffinata.
Con cautela si esca dalla 217.
Il viaggiatore deve bere o mangiare giacché la notte offre i suoi diversi cibi».
È un meccanismo, questo, a cui Labbate può dar vita grazie a una conoscenza dei testi intima e in divenire, che si trasforma in un percorso di interpretazione e rielaborazione. L’indagine è quindi critica e insieme narrativa, e tocca la maggior parte dei capolavori kinghiani, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo – una tappa del viaggio. Si passa dalla neve opprimente di Misery alla casa pregna di sacrale oscurità di Carrie, dalle fogne di It all’hotel di Shining. Una grande importanza è riservata ad A volte ritornano, la raccolta di racconti giovanile di King, a cui è dedicato il lungo capitolo iniziale: il Re, insomma, è capace di creare un’ambientazione indelebile anche nel corso di una manciata di pagine. Di certo Negli States con Stephen King è un libro per appassionati, un tributo che tratteggia una panoramica su tutta l’opera, e la poetica, dello scrittore statunitense. Quella di Labbate, però, è soprattutto un’esplorazione filosofica (sempre nell’accezione di “filosofia del male”). Sorprende, sfogliando le pagine, quanto la visione del male di King sia sfaccettata e irriducibile a una definizione unitaria. Tant’è vero che Labbate si richiama, nell’“Avvertimento” iniziale al lettore, a tre grandi maestri di un tipo di indagine che potremmo definire labirintica, cha fa cioè della ricerca, più che del raggiungimento di una meta precisa, il proprio scopo: Gesualdo Bufalino, Roberto Calasso, W.G. Sebald. A loro rimanda anche la prosa di Labbate, erudita e insieme visiva, sempre sospinta verso una metafisica degli oggetti. Questo stile rende il testo minaccioso, oppressivo, rituale. Sembra, a tratti, che l’autore si ispiri a qualche libro magico, o meglio, maledetto: uno di quelli che li leggi e ci rimani intrappolato.
Il senso di minaccia è poi acuito dal fatto che i luoghi di King sono presentati da Labbate come spazi vuoti, abbandonati, privi di ogni presenza umana, esclusa ovviamente quella del viaggiatore. Mark Fisher (che in TheWeird and the Eerie ha teorizzato l’horror del presente e del futuro) ha definito l’eerie, che in italiano si potrebbe forse tradurre con “inquietante”, in questo modo: «La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa». Nella mappa dell’orrore di Labbate la sensazione di eerie che coglie il lettore è doppia: in quei luoghi è accaduto qualcosa di malsano, che non sarebbe dovuto succedere; adesso però, mentre il viaggiatore li attraversa, di quel qualcosa rimangono soltanto tracce, e nessun testimone. Ecco allora che al lettore-viaggiatore sopraggiunge un’ansia metanarrativa, la paura di qualcosa di cui si è avuto paura in un tempo diverso, quello letterario, ma non per questo meno autentico. Oltre che guida, oltre che libro maledetto e tributo, quello di Labbate, in fondo, aspira a essere soprattutto un libro dell’orrore, cioè un libro che fa paura.
Comments