Pavese e la scoperta dell’America
Tutto ebbe inizio in quei «cinemini da due lire»
di Enrico Picone / 9 dicembre 2021
Verso la fine del dicembre 1928, al cinema Borsa di via Roma a Torino viene inaugurata la rassegna “Cinema d’eccezione”, fondata dal ventiseienne Giacomo Debenedetti, allora membro del circolo culturale La Saliera. Il grande critico si propone di educare il pubblico al film d’arte, anticipando di almeno vent’anni l’attenzione italiana al cinema d’essai. In quei giorni, un giovane Cesare Pavese, a quel tempo studente di lettere, si aggira tra le sale di periferia. È interessato alle produzioni della Fox, affascinato dall’offerta cinematografica ignorata dagli interpreti illustri, insegue le locandine sprovviste di titoli e nomi d’eccezione. Non rinuncia a porsi in aperta polemica con i critici e gli esteti del cinema, come in questo caso: «Non è che gli artisti siano stupidi, ma siete voi deficienti. Critici rompicoglioni che vivete solo di libri e, se andate al cinematografo, cercate la cerebralità e, se andate in giro, cercate l’interessante e non vivete la vita come gli operai o i bambini: la guardate da lontano».
Il debito della letteratura italiana nei confronti del poeta piemontese è enorme, ma quello dell’editoria è forse maggiore. Pavese si è proposto come importatore della letteratura americana, esordendo con la traduzione di Moby Dick e tracciando un percorso inesplorato verso una nuova scoperta dell’America, quella popolata da autori indigeni come Sinclair Lewis e Sherwood Anderson. Della vocazione di Pavese per la tradizione letteraria d’oltreoceano si conoscono il quando e il dove. Accade alla fine degli anni Venti, in quei «cinemini da due lire e anche meno, con gli schermi un tantino maculati» che il giovane poeta definisce come «altari dove si celebrano feste d’arte, inaudite in luoghi meno popolari». George O’Brien e Olive Borden sono i volti «dei filmetti giudicati di scarto perché non forniti di un nome famoso d’attore e non rappresentanti eccezioni artistiche».
La seduzione comincia da qui, lo divora negli anni in cui gli assilli sessuali e i sogni di gloria lo rendono un giovane tanto irrequieto quanto introverso. La vitalità del cinema come «arte da folla» lo prepara all’incontro con Walt Whitman, gli offre una visione dell’America dove la schiettezza e la concretezza non lasciano spazio a remore intellettuali. Scrive così in un articolo intitolato Di un nuovo tipo d’esteta (Il mio film d’eccezione): «Il cinematografo è un’arte da folla e la ragione della sua vitalità è appunto questa. E si capisce che i primi frutti di qualche valore sono venuti dal Nord America, il paese che, per la sua giovinezza e per la sua formazione unica al mondo, ha meno divario di bisogni spirituali tra le classi». Lo stesso assaggio di vitalità lo aveva già assuefatto pochi anni prima, quando preparava la tesi su Whitman. Così aveva scritto all’amico Tullio Pinelli, in una lettera in cui inneggia al poeta americano: «Egli non ama questa o quest’altra azione, ma l’azione per l’azione. Ed esalta su tutto le grandi forze del suo mondo moderno: amore di libertà, amore umano, giustizia, energia, entusiasmo. Rigetta la grazia, la debolezza, la sentimentalità, non in nome di una legge divina, ma in quanto “Preferisco la forza”».
Pochi mesi dopo la pubblicazione dell’edizione pavesiana del Moby Dick, la tradizione americana si arricchisce di una nuova prospettiva sottocutanea. Nel 1933, William Carlos Williams pubblica Nelle vene dell’America (Adelphi, 2015), il risultato di studi in cui il poeta del New Jersey ha «riconosciuto nuovi contorni, suggeriti da vecchie parole, e nuovi nomi che hanno così preso corpo». In quest’opera, Williams mostra porzioni storiche del continente che solo ai poeti è dato estrarre. «I tratti di un uomo come Washington, un resoconto letterale dei processi alle streghe, la storia di un combattimento navale» sono «lo strano fosforo della vita» che scorre nelle vene dell’America. Il poeta americano racconta della scoperta del Kentucky a partire dalle vicende di Daniel Boone, l’esploratore «grande seguace dei sensi», al quale la storia americana dovrebbe riservare somme lodi per aver «contrastato la grettezza paralizzante della tradizione puritana», e riconoscere il genio per aver compreso come «la difficoltà di trovare un suolo che potesse prendere il posto dell’Inghilterra [..] non era materiale né politica, ma puramente morale ed estetica». Boone intuì prima di tutti gli altri colonizzatori che la conquista identitaria del Nuovo Mondo era possibile solo attraverso la partecipazione ai misteriosi movimenti della natura selvaggia. Esponendosi allo spiritualismo indiano, Boone riuscì non solo a divenire egli stesso un indiano, ma a «essere se stesso in un nuovo mondo, da indiano».
L’interesse storico di Williams è pienamente compreso da Pavese, la cui conoscenza del Nuovo Mondo è così profonda che quel Mondo gli appartiene tanto quanto a Williams. Due anni prima della pubblicazione di Nelle vene dell’America aveva scritto: «l’arte ci commuove soltanto finché conserva per noi un interesse storico [..] risolvendo per noi un bisogno di vita pratica». Riteneva oltremodo necessario, al fine di «capire i moderni romanzieri americani», trovare un «parallelo storico che riporti a termini noi noti quegli atti di vita d’oltreoceano che ai più piace immaginare come tanto esotici». Il parallelo individuato da Pavese risiederebbe nella personalità e nell’esperienza di Boone, delle quali non c’è però traccia nella storia d’Italia: «Dall’Alfieri attraverso il D’Azeglio [..] e più giù, non abbiamo mai avuto quell’uomo e quell’opera che raggiungessero quell’universalità e quella freschezza [..] Questo è il nostro bisogno non ancora soddisfatto. Mentre, nella loro terra, sono appunto bastati i romanzieri americani di cui parlo. Da questi noi, dobbiamo imparare».
La scoperta del Nuovo Mondo letterario galvanizza lo spirito antifascista di Pavese. Cresciuto in un ambiente gobettiano, come lo era la classe di latino del liceo D’Azeglio tenuta da Augusto Monti, e destinatario di una rigorosa educazione all’impegno civile, nutre il sospetto «che non tutto nella cultura del mondo finisce coi fasci». Le traduzioni di Lewis e Anderson, di Steinbeck e Caldwell, vanno intese come una forma di gioiosa rivolta che «indigna la cultura ufficiale». All’America appartiene il primato artistico mondiale un tempo appartenuto alla Grecia, all’Italia e alla Francia. Pavese si entusiasma della sapienza tutta americana di racchiudere l’innocenza, la giovinezza, la rissosità e la dissolutezza dentro uno straordinario assortimento di slang che fanno di Anderson il sommo volgarizzatore. «Sono quanto di meglio c’è al mondo! Non solo per ricchezza e livello di vita materiale ma proprio come vitalità e forza artistica, il che significa pensiero e politica e religione e tutto». L’amore per l’America è un amore di gioventù, che gli è d’ispirazione durante gli anni della formazione letteraria. Scosso da La folla di King Vidor, concepisce il racconto autobiografico Un uomo da nulla. (v. anche “Cesare Pavese, i luoghi di una vita in Il mestiere di vivere” di Ulderico Iorillo). La sua esperienza cinematografica è vivida, nutrita a tal punto da plasmarne la sensibilità su una visione piena del dolore: «La poesia è l’immagine chiara di ciò che nell’esperienza ci è parso oscuro».
Il rapporto di Pavese con l’America comincia con il cinema e finisce con il cinema. Alla fine degli anni Cinquanta, la critica è alle prese con il Neorealismo, impegnata a misurarne l’influsso sugli intellettuali italiani. Alcuni di loro passano alla contraerea, rifiutando di essere associati al fenomeno, altri ancora preferiscono vederci chiaro prima di valutare la propria compatibilità neorealistica. È il caso di Giuseppe Berto, che in appendice al suo Male oscuro intende il neorealismo come «reazione al fascismo e alle tendenze letterarie che avevano avuto fortuna sotto il fascismo», stilisticamente interpretabile come «rabbiosa adesione alla realtà». Pavese guarda invece al termine “neorealismo” come un talloncino applicato impropriamente dalla critica alle opere letterarie considerate per il loro «deprecato influsso nordamericano».
In un’intervista rilasciata nell’estate del ’50, il poeta ricorda preliminarmente ai critici il «senso cinematografico» del termine, che definisce le pellicole italiane che «hanno stupito il mondo, americani compresi». La scuola Rossellini-De Sica-Visconti ha rivelato uno stile che nulla o quasi deve a Hollywood. Si chiede allora come sia possibile che «la stessa etichetta definisca con lode una cinematografia e con biasimo una narrativa, che pure sono nate contemporaneamente sullo stesso terreno intriso di succhi nordamericani». E ancora: «si è mai provata questa critica a definire lo stile, la maniera narrativa nordamericana, ricercandone le radici e i modelli storici? Lo sa questa critica che senza Kipling non si spiega Hemingway, senza l’espressionismo tedesco non si spiega Faulkner, senza Maupassant non si spiega Fitzgerald? Non occorreva affatto uscire dall’Europa per diventare neorealisti. Potremmo sostenere con ragione che furono gli americani a imparare in Europa il realismo narrativo, così com’è adesso stanno di fatto rimparando da noi quello cinematografico». Circa due mesi dopo aver rilasciato questa intervista, Pavese abbandonò stancamente la postazione alla contraerea, e ritiratosi in una stanza dell’Albergo Roma ingerì una ventina di bustine di sonnifero. Come accaduto a John Sims, protagonista de La folla, l’estraniamento dalla società lo aveva intrappolato il un vicolo cieco. John era stato portato in salvo dagli affetti, Pavese era invece rimasto isolato nella condizione di infelicità che nulla più aveva da dare alla poesia.
Comments