Le cicatrici di Kola
“Dasvidania” di Nikolai Prestia
di Fernando Coratelli / 16 dicembre 2021
Dasvidania di Nikolai Prestia (Marsilio, 2021) comincia con lo sguardo esterno di un narratore che descrive un bambino taciturno e asociale, in un istituto per orfani o per chi è stato portato via ai genitori indigenti, nella regione del Volga in Russia. Il bambino si chiama Kola (da Nikolai) ed è stato lasciato nell’istituto con sua sorella poco prima della morte della madre. A quel punto è Kola a prendere la parola, a narrare in prima persona la sua vicenda, l’abbandono che lo incupisce, lo rende fragile e diffidente. Si attacca a sua sorella, e conserva l’unica cosa che sua madre gli ha lasciato: un sacco di mele verdi di cui una marcia. Parte così questo romanzo memoir, pensato come un viaggio dell’eroe, in cui Prestia ricostruisce quei giorni duri della sua infanzia nelle terre natie, prima di essere adottato con sua sorella da una famiglia siciliana che lo riporterà in vita, anzi gli darà una vita.
La non appartenenza che accresce il desiderio di identità soggiace all’intera vicenda. La ricerca di un ambiente che sia familiare, che echeggi a una famiglia ossessiona il piccolo Kola. La mancanza di una figura adulta, in particolare, lo prostra. Quegli adulti che ai tempi gli fa dire che «ero convinto che i grandi non avessero mai paura», anche perché «i grandi sanno tutto, almeno così credevo».
Allora, la prima figura cui si aggrappa è il direttore dell’istituto, che si chiama come lui, e che il bambino prende come punto di riferimento; è quel padre che non ha mai conosciuto. Poi c’è la zia Faya che lui e la sorella chiamano «Babushka» (che in russo sta un per «nonna»), colei che materialmente li porta e li lascia nell’istituto e che, alle feste e talvolta nei fine settimana, va a prenderli e li tiene con sé in un appartamento che Prestia descrive nei dettagli. Quei momenti però durano troppo poco, solo il tempo «per alleggerire il cuore».
Ma a dargli una parvenza di famiglia ci sono i suoi compagni di stanza, Sergej, Mishka, orfani come lui, e Sasha che una madre ce l’ha ma la povertà lo ha costretto in quell’istituto. Con loro instaura un rapporto di complicità, gioca, si aiutano e si difendono dal nonnismo degli altri ragazzini più grandi, sfidano le regole, fino a quando Mishka gli dirà: «Sei mio amico». Quella parola gli riempie il cuore di calore, una parola che al protagonista, per un attimo, lenisce il «senso di solitudine: la differenza tra me, la mia vita e quella degli altri».
Il tempo trascorso all’istituto lo vede anche ammalarsi gravemente, una brutta febbre che non passa e che lo costringe al ricovero in ospedale. Qui, la solitudine si aggraverà. Kola osserva gli altri bambini che a fianco hanno le mamme, mentre lui non ha nessuno, soprattutto quando arriva il Natale. Saranno le madri degli altri e le infermiere a fare da surrogato, a impietosirsi di quel bambino solo e tenergli compagnia, a fargli piccoli doni.
E poi ci sarà un secondo ricovero, stavolta in una struttura psichiatrica, quindi tentativi falliti di adozioni, rapporti turbolenti con uno zio, fratello della madre, uomo violento che lo va a prelevare dall’istituto per usarlo come schermo nei suoi traffici illeciti. Kola vive il trauma di un continuo abbandono, da cui il titolo Dasvidania, una lunga sequela di addii finché alla fine arriva una coppia di siciliani che scelgono di adottare lui e la sorella. Sarà allora per la prima volta che sentirà la sensazione di affetto degli adulti, che si accorgerà altresì che i grandi possono amare e amarsi; qualcuno compie un atto d’amore incondizionato nei suoi confronti. Il punto di partenza di una nuova vita.
Prestia scrive con semplicità e chiarezza, attraverso frasi brevi o paratattiche. Questo permette di accelerare il ritmo narrativo che rischierebbe altrimenti di incepparsi, data la natura da memoir e interior monologue. Talvolta le situazioni sono troppo raccontate e non sempre mostrate, in un’alternanza di scene e pensieri filtrati dall’io narrante. Alla fine comunque, il risultato è buono, nonostante alcune ingenuità che però potrebbero ascriversi a un esordio.
È affascinante l’immaginario collettivo di un bambino russo, i suoi ricordi raccontati direttamente in italiano senza il filtro di una traduzione. Forse anche per questo gli si può perdonare qualche luogo comune nell’uso delle metafore e delle analogie. Nel complesso, il romanzo non scade mai nel pietismo né nell’eccessiva esaltazione violenta di certi cliché abusati, dall’infanzia difficile, al barcamenarsi per sopravvivere. Molto esemplificata, al riguardo, è la scena di quando lui ruba cento rubli da un cassetto di Babushka e poi se ne pente, li riporta e confessa il misfatto. Nikolai Prestia, nel descrivere la reazione della zia, la definisce spaventata dal gesto del nipote, perché sapeva a cosa sarebbe potuto andare incontro vivendo in strada, «abbandonato in un istituto, in mezzo a ragazzi simili a me, senza nulla da perdere […] potevo diventare un ladro o qualcosa di peggio». Ma ciò non succede, malgrado alcune situazioni al limite, nonostante la realtà difficile e violenta.
Del resto è la stessa Babushka a lasciargli una massima che Kola porterà con sé, in ogni momento difficile della sua vita, fino a scrivere questo memoir: «Le cicatrici sono dure perché servono a rinforzarci».
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