Quant’è facile lasciarsi ingannare da sé stessi

“Gli inganni” di Sandro De Feo

di / 19 gennaio 2022

Copertina di Gli inganni di De Feo

Gli inganni, esordio narrativo di Sandro De Feo, pubblicato nel 1962 e ora fortunatamente riproposto da Cliquot, è un’opera invecchiata benissimo, che ancora oggi ci parla di illusioni perdute e mancate occasioni. “Romanzo di bilancio”, per usare la parole adottate da Massimo Raffaeli nella prefazione al volume, può essere letto come una resa di conti che il protagonista Antonio, intellettuale pugliese di mezz’età trasferito a Roma per scrivere per il cinema e chiaro alter ego dell’autore,  porta avanti con sé stesso, con le proprie ossessioni e le proprie idiosincrasie, e soprattutto con Roma; la città è un palcoscenico tanto fatiscente nei suoi splendori quotidiani quanto mitologizzato e vampirizzato dal suo riflesso cinematografico, che contende alla realtà dei luoghi – i caffè di via Veneto, Piazza del Popolo, Caffè Rosati – il senso stesso con cui esperirli, rendendo labile e poroso il confine tra verità e invenzione.

Calatosi gradualmente nei riti sfarzosi di una Roma millenaria e decadente, Antonio affronta la città e l’esperienza che la città produce come fosse uno spettatore comodamente seduto in platea, interpretando i segnali ambigui dell’Urbe come un uomo del Sud che non è riuscito ancora del tutto a emanciparsi dai propri fantasmi, dai propri retaggi familiari e, in definitiva, da una latente nostalgia per la giovinezza trascorsa spensieratamente in provincia, tra le campagne e i poderi. Lo scirocco che imperversa fastidiosamente sulla Roma di Antonio nelle poco più di ventiquattro ore inscenate nel romanzo, e che lo accompagna sin dal livido risveglio, si rivela presenza talmente assidua da acquisire a pieno titolo lo statuto di personaggio centrale dell’opera. La condizione di languido otium che s’instilla subdolamente nel procedere lento di fatti, miraggi e pensieri, induce nel protagonista un atteggiamento contemplativo e introspettivo, latore di memorie e ricordi che collaborano a saldare la già spessa membrana che lo separa da un contatto diretto, non mediato, non spurio, con il reale circostante.

Antonio sembra fare esperienza del mondo esterno con un certo altero distacco, più interessato a ricamare e a raccordare in sé l’immagine di quella “società dei caffè” (parodia della matrice originaria settecentesca) che lo affascina e lo respinge che a viverla davvero in prima persona; sembra sperimentare un continuo indebolimento della volontà, per cui i propositi e le promesse che va facendo a sé stesso e agli altri non combaciano mai, per indolenza e fatalismo, con le azioni intraprese. La “mollaccia” romana – declinazione autoctona e papalina della nausea sartriana – ingloba entro le sue spire magnetiche ogni guizzo di slancio sincero e di libero desiderio, appiattendo qualsiasi proposito o voglia che vada oltre la dimensione voyeuristica del guardar vivere e del lasciarsi vivere.

Ecco perché Antonio è sempre svogliato, contrito e fuori fuoco e non ha alcun interesse ad accompagnare Vituccio – l’amico d’infanzia che è venuto a trovarlo per farsi aiutare a risolvere piccole scaramucce createsi al paese – da suo cugino Alfonso, gesuita appartenente a un’importante congregazione. Vituccio rappresenta l’eterno volto della provincia, retaggio natale che non può essere reciso e che a intermittenza si ripresenta, nonostante i tentativi per emanciparsene: con i suoi modi bizzarri, i suoi tic linguistici, i suoi paludati convincimenti, i suoi vizi latenti, è un personaggio che risulta essere dotato, almeno apparentemente, di forti e ben espressi lineamenti identitari, sebbene essi risultino patetici e anacronistici. Cosa che, invece, non si può dire di Antonio, consapevole che il suo dislocamento esistenziale ha provocato un traumatico dissesto identitario, che necessita di essere puntellato sistematicamente mediante una rievocazione del proprio passato, delle proprie radici e un dialogo reiterato con le figure – la madre, Raffaele il “famiglio”, Vituccio – che quel passato lo hanno abitato, riempito e lo proiettano in un presente svuotato di senso e, dunque, privato di tassonomie e paradigmi certi con cui continuare a leggere e interpretare il proprio cammino nel mondo.

Per sopravvivere all’interno di una società che muta rapidamente e caoticamente, alla ricerca di nuovi miti e falsi idoli, e che pare disinteressata a valorizzare la propria vera millenaria eredità, a fare da tramite tra lo ieri e il domani, Antonio è consapevole che occorre avere una propria storia personale da recuperare, un vissuto che bisogna tornare a illuminare quando sembra si faccia labile e confuso. Anche nella noia, nella spossatezza, nel tedio esistenziale esacerbato dallo scirocco, è necessario far leva su ciò che di più saldo ci tiene a terra, le nostre radici. E però, la memoria delle proprie radici può divenire fallace e ingannevole se alimentata costantemente da una tensione immaginativa che si adopera per accrescerne alcuni tratti specifici e per adombrarne degli altri, secondo traiettorie di accomodamento abili ad architettare con maggior piacere e letizia i propri rassicuranti miti personali.

Anche la componente emotiva che soggiace l’arco narrativo del romanzo è ridotta a caricatura, stanca parodia, gioco di specchi in cui si riflettono le fatue illusioni dei personaggi, e non potrebbe essere altrimenti in una Roma in cui apparire è più importante che essere, luogo del vizio ostentato e sbattuto in prima pagina, in cui è annullato al principio ogni possibile affetto sincero, ogni potenziale innamoramento puro e disinteressato. Per questo motivo, l’affetto che Antonio sembra provare per la giovane Silvana sa di compassione più che di  amore: è un sentimento nato sulla scia del supposto convincimento che Silvana provi piacere a far credere agli altri di essere ciò che in realtà non è.

Eppure, in una città come Roma, non si può essere mai sicuri di non aver sovrainterpretato, di non aver mitizzato inconsciamente i fatti, gli uomini, le proprie emozioni. Antonio sopravvive attraverso i continui processi di tipizzazione con cui alimenta il senso della propria esistenza, ma, quando comincia a intuire la possibile discrepanza che esiste tra ciò che egli crede di credere e la reale natura che gli altri posseggono e con cui sono costretti a negoziare quotidianamente, viene invaso da un senso di perdita e di disperazione. Non si può scappare da sé stessi così come non si può scappare da Roma una volta che ci si è lasciati ammantare dal suo opprimente splendore, dalle sue scene da repertorio, dai suoi melodrammi barocchi.

Nello scioglimento finale del romanzo, al concludersi di questa lunga giornata in cui non sembra essere accaduto nulla e invece è accaduto tutto, Antonio comprende, dopo aver tentato di smascherare la subodorata liaison tra Vituccio e Silvana, di aver smascherato invece sé stesso, la sua indole cinica e trasfigurativa che lo spinge a proiettare costantemente il proprio malessere sugli altri. All’apice della sua crisi esistenziale, Antonio si accorge di aver falsificato la realtà più di quanto essa tenda a falsificare sé stessa, di aver sublimato le fisionomie delle persone intorno a lui per farne pupazzi più adatti alla farsa che ha messo in piedi per proteggersi dal mondo reale e dalla condanna alla solitudine che esso reca con sé.

A questa epifanica consapevolezza si accompagna la drammatica coscienza che non c’è davvero possibilità di conoscere la realtà, di mettere ordine al caos, se non filtrandola e corteggiandola attraverso la propria distorta immaginazione, a sua volta colonizzata da archetipi mediatici e cinematografici che ne mistificano la direzione. La sensazione di vertigine che tale scoperta provoca è troppo tragica per poter pensare davvero di accoglierla, elaborarla intimamente e farne punto di partenza per inaugurare una nuova parabola esistenziale. Più facile, accogliente e sicuro ricadere coscienziosamente nelle antiche mitologie parentali e affettive, nei rodati processi di elaborazione di promesse e scuse e giustificazioni che si alternano in un circolo vizioso senza fine, uniche strategie di sopravvivenza da mettere in atto per difendersi dai dubbi erosivi di un’identità sfaccettata, sfuggente, dalla sofferenza insita nell’amore vero e totalizzante, dall’insensatezza dell’esistere.

 

(Sandro De Feo, Gli inganni, Cliquot, 2021, 168 pp., euro 16, articolo di Niccolò Amelii)
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