Decadenza rivoluzionaria
“Mai e poi mai il fuoco” di Diamela Eltit
di Davide Tamburrini / 26 gennaio 2022
«Mai, uomini umani, / ho provato tanto dolore nel petto, / […] mai e poi mai il fuoco / giocò meglio il suo ruolo di freddo morto!»
A leggere I nove mostri di César Vallejo, poesia scritta nel 1937, si capisce bene perché Diamela Eltit abbia voluto utilizzare questi versi come spunto per il titolo del suo libro, Mai e poi mai il fuoco, pubblicato dalla casa editrice gran vía nella traduzione di Raul Schenardi (traduttore alacre di molti nomi della letteratura sudamericana tra cui Roberto Arlt, José E. Pacheco e lo stesso César Vallejo). La riflessione sul dolore non si limita a colpire l’aspetto più materiale, ma investe anche una dimensione più profonda, metaforica, dove l’elemento che più di tutti è associato al calore vivificante – e quindi nel caso di questo romanzo all’ardore politico e rivoluzionario – non può far altro che nascondersi, mero fuoco pallido, prendendo in prestito la citazione da un libro di Nabokov.
In Mai e poi mai il fuoco non sappiamo dove siamo, in realtà non conosciamo neanche i nomi dei due protagonisti – sappiamo soltanto che sono una donna e un uomo. A dirla tutta per intuire qualche informazione concreta dobbiamo stare attenti, muovendoci adagio e centellinando le sparute tracce che ogni tanto, con discrezione, l’autrice si premura di lasciare sparse sul terreno. E così scopriamo che quelle due persone, immerse in uno strascinato torpore che assume spesso i contorni di un’abulia patologica, sono due ex rivoluzionari, militanti appartenuti nel tempo a diverse cellule ribelli contro il regime di Pinochet, che dal 1973 a seguito di un colpo di stato prese il potere in Cile, mantenendolo fino al 1990.
«Mi bruciano gli occhi per un sonno che sembra un mero sintomo»: intrappolati in una stanza dai contorni indefiniti i due passano i loro giorni sdraiati su un letto, assiepati in una scomodità che non è semplicemente corporea. Non possono uscire – la temperie politica ancora non lo permette –, e il periodo speso a casa si trasforma in un’occasione per fare i conti col passato, per cercare di ricordare e mettere assieme i pezzi di quella che è stata la loro militanza comune, sofferta e costellata di insuccessi. Ma il fallimento non è solo accidente, è condizione esistenziale che ammala qualunque cosa, anche il tempo, anche la memoria: «È trascorso più di un secolo, ti rendi conto?, ti dico un secolo intero e spezzato, mille anni, un’epoca che si conclude senza echi, come se non fosse successo, ti rendi conto?». Non possiamo fidarci di niente, qualunque ricordo nasconde una potenziale trappola da cui è meglio tenersi lontani il più possibile. Sul patibolo in questo caso c’è l’ideologia rivoluzionaria, un credo utopico che si è sfaldato lasciando dietro di sé soltanto i cocci e i rimpianti per un passato che è stato e non si può più cambiare. Ogni cellula è stata disintegrata, annientata assieme ai suoi componenti che come fantasmi riempiono la stanza, clandestini, con gli occhi spenti e gli sguardi in attesa di una spiegazione, i morti che tornano a riscuotere gli anni trascorsi nella militanza, che portano a spasso la loro terribile contaminazione: il matto Jiménez, Pedro Cevallos e Lucho che con la sua sobrietà da minatore si è impiccato pur di non farsi prendere. Ma ogni cosa in questo libro non è mai quello che sembra, tutto è metafora, contrassegno di un decadimento diverso, biologico: e così il fallimento delle numerose cellule che si sono susseguite nel tempo non si limita ai soli ideali rivoluzionari, ma pervade tutto il corpo, diffondendosi come un morbo che intacca i tendini i muscoli le ossa. L’unica soluzione rimane quindi rinchiudersi in un guscio dalle pareti impermeabili, rannicchiati in posizione fetale, il ripiegamento solipsistico di chi fondamentalmente ha abbandonato la lotta, la guerrilla, e si è arreso, il fuoco che ha smesso di ardere e che non brilla più. Mai e poi mai il fuoco. Mai più, verrebbe da aggiungere.
Diamela Eltit non scrive un romanzo per tutti. La sua lingua è cruda, un’assenza di connettivi linguistici che nell’economia della sua prosa è cifra sperimentale, avanguardistica: «Ho vissuto, sì, in mezzo a una sottilissima alterazione percettiva». E non è un caso, dato che la scrittrice cilena ha fatto parte del Colectivo Acciones de Arte (CADA) insieme al poeta Raúl Zurita, suo marito (che subì la detenzione e la tortura proprio del regime di Pinochet) e agli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo. Nato nel 1979 per far fronte alle forti inibizioni che avevano colpito le nuove manifestazioni artistiche, il collettivo concentrava i suoi sforzi attorno a un’idea centrale: la necessità di un rinnovamento teorico e pratico dello sforzo artistico nazionale, con l’intento di vincolarlo alle correnti neoavanguardistiche mondiali. Il carattere politico di CADA era evidente nella doppia negazione di molti dei suoi interventi, che cercavano contemporaneamente di operare come dissenso all’interno dei discorsi artistici e come espressione di opposizione nel campo politico nazionale, rifiutando il quadro istituzionale sistemico del regime militare e, più profondamente, le basi economiche e sociali che lo sostenevano.
Ma il regime militare è spietato, non lascia adito a dubbi né sembra apparentemente mostrare debolezze. In questo naufragio collettivo non c’è spazio per la speranza, neanche per una lontana parvenza di futuro: il bambino avuto dalla coppia – anche qui metafora decadente del nascenti puero virgiliano che in questo caso non rispetta le sue promesse di rinnovamento ma fallisce ancor prima di cominciare – muore dopo solo due anni in circostanze non del tutto chiare, e ogni volta che la donna tenta di parlarne, di richiamarne la testimonianza, ottiene in risposta soltanto un sordo rifiuto. «Abbiamo schivato la realtà […], abbiamo potuto solo far parte del suo perimetro come infimi roditori perennemente in fuga». A essersi arreso non è solo il corpo, lo spirito o l’ideologia rivoluzionaria, è la stessa memoria che tradisce, che si confonde a rievocare i ricordi di una vita ormai disillusa. Questo senso di spaesamento è ben evidente ad esempio quando leggiamo delle visite che la protagonista fa a una coppia di anziani, che lei per guadagnare qualche soldo lava e pulisce ogni settimana; la descrizione delle singole operazioni e dei piccoli gesti che compongono questo rituale è minuziosa fino a divenire spasmodica nella sua ossessione per i dettagli più nauseanti, l’odore di orina, le feci rimaste attaccate ai genitali, le escrescenze nere sulla pelle partecipano di un quadro dalle tinte marcescenti. È ancora una volta il corpo a essere indagato – lo sarà costantemente nel corso delle pagine –, con un’attenzione anatomica da bollettino medico, una poetica del dolore che ha tra i suoi prodromi sempre la penna di César Vallejo. Eppure più di una volta siamo portati a chiederci chi siano queste persone, se esistano davvero o siano solo dei personaggi fittizi, domande a cui l’autrice non si sforza nemmeno di dare una risposta, ma di cui anzi contribuisce con la sua prosa ad alimentare l’ambiguità, instillando il dubbio che questa coppia di anziani non sia in realtà nient’altro che il riflesso della stessa identità dei protagonisti, reietti abbandonati a un destino spopolato di ogni pulsione vitale ma abitato dai fantasmi della loro coscienza.
«Il dolore ci afferra, fratelli, / da dietro, di lato».
I nove mostri di Vallejo non lascia alcun orizzonte a cui guardare speranzosi. E cosa resta quindi dell’amore e della resistenza, degli ideali e del sangue versato per la causa? Di fronte all’orrore della risposta i due ex militanti preferiscono voltare la faccia, rannicchiarsi e dormire, come se il mondo fosse già finito e non avessero più nessun obbligo nei suoi confronti, le braci del loro ardore ormai completamente spente, mai e poi mai (più) il fuoco.
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