Luce e colori in Faulkner, Joyce e Camus

Un uso semantico

di / 17 febbraio 2022

Luce e colori Flaneri

In tempi di progressiva marginalità e perdita di prestigio della critica letteraria, al cui orizzonte di esplicitazione e coscienza spesso si preferisce sostituire il ruolo subalterno e inappropriato di supporto del mercato, mera ratifica e amplificazione pubblicitaria di un rassicurante già detto, vale ribadirne la funzione che anzitutto le è propria, quella cioè di analisi di forma e contenuto del testo, dunque a uno stesso tempo di studio sia del cosa che del come di cui è costituito. A questo fine, tra le diverse metodologie critiche l’approccio semantico si rivela particolarmente utile quando si voglia mettere a confronto autori e opere molto distanti tra loro, come nel caso di Gente di Dublino (1914) di Joyce, Luce d’agosto (1932) di Faulkner e Lo straniero (1942) di Camus. Se, infatti, la letteratura è strumento di comprensione del mondo attraverso il linguaggio, l’uso della parola non può esaurirsi nel suo essere esplicitazione di questo o quel concetto ma si fa veicolo del non detto, vale a dire di ciò che di più prezioso giace tra le sue righe e ne rappresenta la differenza qualitativa.

Tuttavia, l’incapacità di uno sguardo approfondito da parte di critici o editori non appartiene unicamente alla storia recente, poiché sarà proprio il raffinato sottotesto della raccolta di racconti Gente di Dublino a causare le ritrosie degli editori Maunsel e Roberts, portando nel 1907 alla rottura del contratto e al definitivo distacco di Joyce dall’Irlanda, cui per la delusione non farà più ritorno. È sorprendente, ma l’autore riuscì a pubblicarla presso l’editore americano Grant Richards solo sette anni più tardi, al prezzo di umilianti clausole e peraltro grazie all’intervento e al continuo incoraggiamento di Ezra Pound, senza i cui sforzi «io sarei rimasto probabilmente quello scribacchino sconosciuto che lui scoprì», come ebbe ad ammettere lo stesso Joyce nel fitto epistolario che si scambiarono. All’intercessione del grande poeta, che tra l’altro si batté faticosamente per riuscire a far pubblicare sulla rivista The Little Review i primi capitoli dell’Ulisse (1925), dobbiamo infatti con gratitudine la fortuna letteraria di uno dei massimi scrittori del Novecento.

In Gente di Dublino, apparentemente semplice a una lettura di superficie, il colore costituisce uno dei tanti sistemi di segni che frangono la parola nelle immagini archetipiche di un universo mitico e allegorico. Qui il verde non rimanda all’isola di smeraldo di San Patrizio, col suo sottinteso di rigenerazione spirituale, né al simbolo nazionale del trifoglio, quel fortunato shamrock usato come logo di squadre sportive e associazioni di vario tipo. Lontano dall’essere emblema dell’Irlanda nei suoi connotati vitali e positivi, è piuttosto la tinta verdastra della marcescenza e della putredine, proiezione della morte sulla vita e, assieme al marrone – che ritorna anche nei nomi di alcuni personaggi come per esempio il signor Browne – nonché in contrasto al blu liberatorio del mare, è il tono dello stallo, del gorgo paludoso che si riavvita su se stesso, addirittura della pazzia e della perversione, come «gli occhi verde bottiglia» dell’ambiguo vecchio satiro che, in Un incontro, gira in tondo il suo monologo tra mania feticistica, intransigenza bigotta e sadismo.

La Dublino di Joyce è quella di una società stagnante volta alla paralisi, dove l’alone giallastro delle vecchie foto, il cupo rossiccio dei mattoni dei quartieri periferici, la nera terra cimiteriale e la patina brunastra degli edifici riflettono per osmosi l’incapacità di rinascita della piccola, minuta borghesia dei personaggi, come in Un caso pietoso il viso dell’accidioso Duffy ne possiede «la tinta scura delle strade». Ma alla grandezza di Gente di Dublino non corrisponde tanto la sintesi tra l’eredità naturalistica di Flaubert o Zola e quella simbolista di Hauptmann e W.B. Yeats, quanto l’ironico distacco che Joyce riserva a entrambe. Nell’apparente linearità dei racconti, infatti, il mondo al contempo reale e metaforico dei dublinesi si apre a una dimensione ironicamente allegorica della condizione umana, come testimonia l’ultimo e più celebre dei racconti, il magistrale I morti, definito una parodia funeral o meglio funferal, come annotò lo stesso autore con un divertito gioco di parole tra fun (buffo, divertente) e funeral (funerale).

Ma se il tempo assoluto dei vivi e dei morti dublinesi, cristallizzato nel racconto finale dall’obliosa distesa della neve dai «fiocchi argentei e scuri» cadente «su tutto l’universo», tuttavia aspira alla Grazia, in Camus non c’è possibilità di una trascendenza che riunifichi l’irrimediabile scissione di senso tra uomo e natura, e l’ironia joyciana per la sorte umana cede il passo all’amara consapevolezza della sua sconfitta. L’immobilità dell’eterno presente di Meursault, il piccolo impiegato che, ne Lo straniero, dopo un banale litigio con uno sconosciuto incontrato per strada lo uccide, spalanca ai lettori l’inferno di uno stato di cose senza speranza né riscatto. Là dove la simbologia legata all’ovest, dunque al tramonto e ai suoi colori indicava sia il moto centripeto della società dublinese quanto la decadenza della civiltà occidentale, ne Lo straniero la posizione del sole sembra quasi non toccare punti cardinali, onnipresente e spietata presenza che col suo calore diventa l’ossessione, tanto intollerabile quanto perenne, di una sorta di beffarda divinità mitologica.

Non a caso durante il processo, di fronte ai giurati sbigottiti, Meursault alla domanda sul perché del suo atto risponde: «a causa del sole». Non vi è un ovest rappresentativo del morire al quale contrapporre l’alba della rinascita di un favoleggiato est, come in Arabia, perché nemmeno la cultura orientale offre la seduzione di un’alternativa al nulla dell’esistenza. Differentemente che in Joyce, per Camus l’uomo è condannato a morte dalla natura, e a questa premessa non vi è scampo. La sabbia rovente sulla quale avanzano verso di lui i due arabi gli appare, per un’allucinazione, rossa come quel sangue che tra poco verserà, gesto di morte gratuito e assurdo quanto la stessa vita. Il sole feroce, che rende «inumano e deprimente» il paesaggio, cade «quasi a piombo sulla spiaggia», premonitore dei quattro colpi che a breve esploderà dalla pistola decretando così la sua sventura. Se i personaggi della Dublino di Joyce sono intrappolati nell’inazione, per il protagonista de Lo straniero ogni azione è vana, perduta nel limbo atemporale dell’impossibilità. Il modesto dipendente Meursault è un Titano non solo consapevole della sconfitta, ma anche nei suoi confronti tragicamente indifferente.

Quanto diverso dall’implacabile sole di Camus che non getta ombre è quello di Luce d’agosto, dove i raggi dell’estate che mettono a nudo i lati oscuri tuttavia lasciano posto al domani e alla speranza. «Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica» commentò Faulkner a proposito del titolo, cambiato da Dark House in quello che conosciamo dopo una casuale osservazione che gli rivolse la moglie: «hai mai notato come la luce in agosto sia diversa da ogni altro periodo dell’anno?». Di fatto, se il dualismo oppositivo della natura equivoca di Joe Christmas, l’uomo dalla pelle «color pergamena» ma «sangue negro» nelle vene, contrabbandiere d’alcool e assassino della donna bianca che amava, lo spinge verso il destino ineluttabile dell’eroe di una tragedia greca, il sistema cromatico di segni che affida il candore di Lena Grove agli spietati riverberi estivi quanto a «una sorte di luce interna di calma, tranquilla irragionevolezza e di distacco», amplia la dimensione mitica del romanzo alla metafora della Grazia.

Là dove l’omicidio per mano del Meursault de Lo straniero è il focus dell’opera, la dualità epica e antica di Joe Christmas, col suo essere mezzo bianco-mezzo nero, è superata dall’aura luminosa a tutto tondo di Lena, che non fortuitamente apre e chiude Luce d’agosto. In lei che povera, scalza e sola, attraversa a piedi l’Alabama fino al Mississippi in cerca del padre del bambino che porta in grembo, vive inattaccabile la speranza, la fede nel futuro, la possibilità di riscatto di un’umanità che oltrepassa la morte. Se l’ateismo di Camus condensa la luce sulla lama d’acciaio scintillante del coltello in mano all’algerino, «spada ardente» che perderà Meursault inchiodandolo nell’istante eterno in cui reagirà sparando, in Luce d’agosto l’accecante fulgore estivo accompagna grandiose tragedie, tuttavia disponibili a simbologie salvifiche. In questo che di Faulkner, debitore dello sperimentalismo europeo joyciano, è il testo meno criptico, l’utilizzo significante della luce e del colore non è dissimile dalla tensione alla trascendenza – intesa come superiore senso unificante – di cui si intesse la simbologia cromatica di Gente di Dublino.

Qui, dove ne Il giorno dell’edera nell’ufficio elettorale il falò e le metafore che vi si legano sono il corrispettivo di un Paese alla deriva, per riconnettersi in finale di racconto con l’immagine della fenice che risorge dalle proprie ceneri, l’implicito rimando al rosso, alla luce e al calore è quanto di più distante dalle fiamme paralizzanti di Camus, cui non segue alcuna trasformazione: «mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua larghezza per lasciare piovere fuoco», dice Meursault un istante prima che il grilletto si muova, condannandolo. Ciò che fa di questi tre testi opere che sopravvivono al tempo, è il quid nascosto nel sole crudele che acceca il travet di Algeri, nella sua cieca assurdità al pari di lui né colpevole né innocente, nella luce d’agosto che disarma le ombre dello squallore morale, nell’inafferrabile «grigio mondo impalpabile» della nevicata in cui, ne I morti, svanisce l’identità di Gabriel, richiamato dall’immensa «esistenza area e incorporea» di quanti non ci sono più, il cui stesso mondo materiale pian piano si dissolve e confonde con i fiocchi di neve.

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