La voce della notte

A proposito di “Lampreht” di Kazimir Kolar

di / 21 febbraio 2022

Copertina di Lampreht di Kolar

«Non ci spaventiamo più a morte, andiamo alla morte. Le malattie sono per l’uomo la strada più breve per tornare a se stesso». Così afferma il principe Sarau in Perturbamento, romanzo di Thomas Bernhard. Nelle opere dell’autore austriaco, la malattia assume centralità in quanto lente attraverso cui analizzare la realtà e proteggersi dalla stessa, essendo questa spesso connotata in termini negativi.

Sembra aver letto Thomas Bernhard anche l’autore sloveno Kazimir Kolar, che arriva in Italia per i tipi di Wojtek Edizioni con il romanzo Lampreht. Nelle sua pagine, infatti, si ha l’impressione di sentire un’eco dello scrittore austriaco, perché al centro del romanzo vi è una malattia che diventa strumento di analisi della contemporaneità, ma anche scudo dalla pressione a cui le convenzioni sociali ci costringono.

Il protagonista è Kazimir Lampreht, detto Mirko, perché Kazimir «è solo il mio nome di battesimo, non è il mio vero nome». Egli è affetto da psicosi, che si presenta sotto forma di voci «da qualche parte sopra di me, strane voci, gonfie di confusione, e mi pare che chiamino qualcuno per nome»; questa si manifesta anche nel continuo passaggio da un lavoro all’altro, segno di un’evidente scissione dell’identità e al contempo di una certa difficoltà nello stare in società. Lampreht, infatti, è stato guardiano notturno, professore di storia e ostetrico. Tutto questo, poi, ci viene raccontato dalla fine all’inizio, ovvero dal momento in cui la psicosi ha raggiunto il suo culmine fino al principio della stessa. Se l’inversione temporale, che sembra derivare dal malessere psichico del protagonista, diventa paradossalmente una maniera per invertire il senso comune, allora è proprio la malattia l’unico modo per Lampreht di reagire di fronte alle storture della società in cui vive.

Per comprendere al meglio questo romanzo, bisogna soffermarsi sul titolo originale, ovvero Glas noči, che in sloveno significa “la voce della notte”. Se il titolo italiano si concentra soprattutto sulla persona di Lampreht, conferendogli centralità e dignità in quanto individuo, quello originale rende meglio l’idea della psicosi del protagonista, della sua posizione nel mondo e della sua voce: una voce che viene dal buio, dai margini della società, espressione di un individuo che va incontro alla morte in un vortice ipnotico e regressivo, senza sosta, precipitando infine negli abissi della sua coscienza ma allo stesso tempo della nostra, meschina, indifferente e malata quanto la sua.

All’interno del romanzo sono molti gli elementi e le espressioni che rimandano all’idea della notte e dello smarrimento, come i «corridoi bui e oscuri», la «lunga ombra della sera», piuttosto che i richiami al sonno, al tema della fine e al volo degli uccelli . Quest’ultima immagine è un riferimento alla citazione di Hegel che l’autore pone in esergo: «La nottola di Minerva inizia il suo volo solo sul far del crepuscolo». Se per il filosofo tedesco la nottola di Minerva è la metafora della filosofia che comprende le cose soltanto una volta che sono accadute, per Kolar la psicosi è un modo per il protagonista di prendere atto di una condizione generalizzata di spaesamento senza via d’uscita. Indice di ciò è il modo in cui il libro è strutturato: questo si suddivide in quattro capitoli intitolati “Io”, “Gli altri”, “Il mondo” e “Lo spirito”, a riprova del fatto che il malessere di Lampreht coinvolge anche tutti coloro che gli stanno intorno, cosicché la sua malattia diventa anche la nostra.

Per poter criticare un ambiente malato come quello in cui vive il protagonista, Kazimir Kolar racconta di Lampreht riducendolo a un “grado zero sociale”, ovvero allo stato di “inutile”, condizione che gli permette di raccontare senza remore i suoi disturbi e di contestare liberamente la propria realtà. Lampreht riesce a fare ciò perché, essendo ritenuto inaffidabile dagli altri, si trova in una posizione tale che nessuno può condannarlo. La sua inaffidabilità è presente da subito, soprattutto nel momento in cui intraprende la sua seduta di psicoanalisi. «Non mi capisce», dice allo specialista, «ma non c’è bisogno che mi capisca. Non sto cercando di convincerla di niente, non le voglio stare a spiegare un bel niente. Io voglio solo raccontare». Nel fare ciò, Lampreht vuole quindi ridursi al nulla, di modo da poter criticare chiunque rientri nei suoi pensieri:

«Col cazzo che ero normale. Sangue dal naso, allucinazioni, caduta di capelli. Tutto questo mi succedeva. Unghie spezzate. Minzione dolorosa, costipazione. Alito cattivo, piressia, tremori. Ciondolavo intere giornate al centro commerciale BTC, immaginandomi fantasma. Ero diventato bravissimo, si comportavano tutti come se non esistessi. Proprio quello che all’epoca volevo».

Lampreht vive con l’idea di non avere valore, e si autoconvince di questa verità che gli è stata indotta, tanto da essere incapace di migliorare la sua situazione: il protagonista «vuole correre a tutti i costi», ma «inizia a sprofondare in basso, invece di procedere in avanti», confermando così la convinzione che la sua vita non abbia alcun senso. Egli si sente sempre più «una specie di animaletto abbandonato» che «si propaga per i corridoi bui e oscuri», perché «è una povera anima abbandonata, un naufrago».

La condizione di naufrago esistenziale, allora, lo mette nella posizione di abbandonarsi alla sua regressione, ignorando l’invito dello psicoanalista di smetterla di parlare ad alta voce e di usare parolacce. Il giovane «non può smettere di parlare. È tutto a puttane», in quanto la società in cui vive è malata tanto quanto lui, come dimostra questa sua riflessione dal tono e dal ritmo molto bernhardiani, fatta di pensieri che si accumulano in un flusso ininterrotto:

«Dove ci porterà tutto questo? Tutti odiano tutto. Il lupo è un uomo per l’uomo. L’uomo è un lupo per il lupo. Lupa ex fabulo. Fabulus ex lupo. Lupare de fabulo. Fabulare de lupo. Finisce che m’innervosisco. Finisce che mi sfracello. Nel fiume vado a finire. Sotto la riva. Sono nervoso. Voglio prendere a schiaffi qualcuno. Lo voglio colpire. Lo voglio ammazzare. Cantando. Ne voglio bere il sangue, me lo voglio spalmare in faccia. Mi ci voglio rinfrescare il corpo. Chi l’ha aperto il finestrino? Chi non l’ha aperto il finestrino? Perché non ci sopportiamo? C’è qualcosa di malato in noi. […] Noi non siamo un paese normale. Autodistruzione, cinismo. Ignoranza».

Lampreht sembra riprendere quanto affermava Thomas Hobbes: homo homini lupus, l’uomo è un lupo fra gli uomini. Il suo mondo è pieno di indifferenza, ignoranza e cinismo. Ognuno è contro tutti, e proprio per questo il protagonista ha fatto sua la psicosi: per sprofondare sempre più in sé stesso, perché non c’è salvezza e si può solo precipitare verso la fine.

Ed è allora che si scaglia verso tutti. Rinnega, ad esempio, il nome di battesimo derivato dal nonno, sopravvissuto ai campi di concentramento, riguardo ai quali sostiene che i libri di scuola nascondono la verità – «il mondo è dissimulato», afferma – e si lascia andare a osservazioni di un sarcasmo spinto all’estremo. Per lui un adulto che si avvicina a un bambino automaticamente ci vuole fare sesso come nei film, mentre un bambino che sta per nascere si immagina un paradiso di dolore, sofferenza e «forse una guerra mondiale, lo scontro tra le civiltà», e le colleghe sono «vecchie cornacchie» o «cessacce infami» ostili e vendicative che possono disporre di lui come gli pare e piace perché «fa parte anche questo della punizione: il fatto che nessuno sappia cosa farsene di te. Sei inutile, privo di valore. Chiunque può mandarmi dove gli pare e piace».

La voce della notte di Kazimir Lampreht grida senza peli sulla lingua – con un sarcasmo rabbioso e acido, ironico e spietato fino all’esagerazione come il miglior Bernhard – una verità che nessuno vuole riconoscere: «Il mondo non offre possibilità, è teso, gravido di pettegolezzi metafisici e di citazioni deleterie. Se affogo […], se recuperano il mio cadavere dal fiume, certo non lo fanno per compassione o per timore di un castigo, ma per ordinaria trivialità». Malato, dunque, non è solo Lampreht, ma lo siamo anche tutti noi, con l’unica differenza che il protagonista di questo libro non ha paura di ammetterlo, e così facendo si dimostra più sano degli altri.

 

(Kazimir Kolar, Lampreht, trad. di Lucia Gaja Scuteri, Wojtek Edizioni, 2022, 120 pp., euro 14, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
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