“Rogozov”, un romanzo inaffidabile
Intervista a Mauro Maraschi
di Martin Hofer / 2 marzo 2022
Rogozov di Mauro Maraschi (TerraRossa Edizioni, 2021) riporta la vicenda umana di Ruggero Gargano, fervente oppositore della medicina occidentale che per sé e per la figlia Ania sposa il credo dell’autoguarigione, della cucina macrobiotica e della Natura idealizzata come via di fuga dall’opprimente miseria metropolitana che lo circonda.
Nel 2022, un esordio che parla di complottismo e di sfiducia nella scienza non può che destare attenzione. Ma Rogozov è molto di più. È un romanzo che racconta il peso delle maschere che indossiamo, l’incapacità di sostenere genuinamente le nostre convinzioni, l’inganno al quale ogni giorno ci sottoponiamo per non correre il rischio di cestinare buona parte della nostra esistenza. Descrive tutto ciò con salomonica spietatezza, senza giudicare una parte o l’altra, o forse condannando entrambe. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Nonostante il libro tocchi argomenti di grande attualità, mi dicevi che Rogozov ha avuto una lunga gestazione e ha subito numerose revisioni. Quali sono gli aspetti sui quali hai sentito la necessità di intervenire maggiormente? Quanto c’è del Gargano “della prima stesura” in questo prodotto finale? Il tuo sguardo nei confronti del personaggio è in qualche modo cambiato nel tempo?
La prima stesura risale al 2015, ma non sosterrei mai che il romanzo ha richiesto sette anni di lavoro. Per lunghi periodi è rimasto a riposare, mai accantonato. Buona parte del lavoro di revisione è stata incentrata sulla costruzione del personaggio, della sua voce e della specifica qualità della sua contraddittorietà. Tutto il lavoro sulla trama è stato secondario, perché a me delle trame non importa nulla (arriverà il giorno in cui ne farò a meno), ma penso anche che un autore debba accettare un compromesso: soltanto i Maestri possono fare a meno della trama e dar vita ad antiromanzi memorabili, mentre gli altri farebbero meglio a procedere per gradi, o quantomeno questo è ciò che ho deciso di fare io. Ma – di nuovo – a me della trama in sé non importa nulla, mi serviva come contenitore per altro: riflessioni, giochi metaletterari e, appunto, la costruzione di un personaggio originale. Gargano è stato Gargano fin dall’inizio, l’idea era chiara e l’ho perseguita ciecamente, con un’unica differenza sostanziale: nella prima stesura Gargano era molto più virile, sessista, laido, squallido e violento, un vero delinquente. Avrei voluto instillargli quella muscolarità ritrovata, per dirne uno, in Estate crudele di Bertante, ma – molto semplicemente – mi sono reso conto di non riuscirci, per una carenza diciamo personale, la mia totale mancanza di confidenza con l’aggressività. Gargano spaccone risultava fasullo, e così nel corso delle stesure ho censurato fino a renderlo un ibrido, un personaggio tragicomico, dostoevskijano (anche se finora nessuno ha percepito l’influenza di Dostoevskij nel mio romanzo).
Ci troviamo al cospetto di una voce narrante apparentemente affidabile che riporta la versione di Gargano, un narratore apparentemente inaffidabile. Tale meccanismo ci induce a dubitare dei propositi dei personaggi e dei fatti così come sono da loro presentati. Per quale motivo hai deciso di costruire questo “doppio filtro”?
All’inizio il romanzo era in prima persona, per cui il lettore si trovava in balia di un narratore inaffidabile, condizione che di norma trovo snervante. La soluzione mi è arrivata da Thomas Bernhard, che ricorre spesso a quella che io definisco «poetica del riferito» o ancora meglio, con una formula che mi è stata suggerita, «narrazione de relato»: prendi un personaggio cavo e gli fai riferire le affermazioni del personaggio che davvero ti interessa fino a trasformare il personaggio cavo in una cassa di risonanza, con il vantaggio dell’apparente filtro dell’affidabilità (si pensi all’assistente di Roithamer in Correzione). Non so quanto sono riuscito a farlo funzionare in Rogozov, ma non ho dubbi che questo meccanismo sia la mia strada, la mia modalità da qui alla morte.
È molto complicato decifrare le reali intenzioni di Gargano, innanzitutto perché lo conosciamo per interposta persona, ma anche perché, da un lato, mi sono spesso sorpreso a condividere alcune sue convinzioni assai radicali, dall’altro, a diffidare della spontaneità con la quale compie certe “buone azioni”. Che idea ti sei fatto sul suo conto?
Posso provare a spiegare in due parole la sua contraddittorietà: i pensieri di Gargano sono coerenti tra loro, ma Gargano dice in parte ciò che pensa, in parte ciò che crede che gli altri si aspettino da lui e in parte ciò che reputa utile a instradare il pensiero altrui. È, in tal senso, un manipolatore, anche se incapace. Per farla breve: non gli va di lavorare (ma a chi va?), è un vittimista, è un pigro, e per legittimare queste caratteristiche socialmente negative ha costruito un castello ideologico talmente monumentale da non riuscire a tenerlo in piedi nel corso di un monologo. Uno dei miei intenti era proprio quello di spingere il lettore a rispecchiarsi in alcune affermazioni sconvenienti, estreme, provocatorie, e a prenderne le distanze subito dopo, magari inorridito: perché tutti abbiamo pensieri atroci, il pensiero è capace di tutto, soltanto che noi per tutta la vita ci impegniamo a essere annoverati tra i buoni, ricacciamo nell’inconscio i pensieri atroci, e infatti siamo delle mine vaganti.
In coda al libro è presente un’appendice con lettere, interviste, trascrizioni, discorsi che espandono l’universo narrativo di Rogozov. All’interno del testo viene fatto riferimento a un documento che poi ritroviamo in forma integrale in appendice, unico spazio dove i personaggi “secondari” possono prendere autonomamente parola. Qual è la funzione di questo apparato? E come mai hai deciso di collocare in fondo al libro un elenco di citazioni, una per ogni capitolo?
Le appendici sono un gioco: il romanzo finisce quando finisce la narrazione, il resto sono approfondimenti per chi si è affezionato al testo, e che gli altri possono ignorare. Rogozov è il primo tassello di un progetto molto ampio. Le citazioni in coda sono lì per non distrarre il lettore: avrei potuto collocarle all’inizio di ogni capitolo (che rappresentano con discreta precisione), ma in quel modo avrei tradito la natura finzionale del testo, che è quella di un resoconto redatto dal suddetto personaggio cavo, il riferente o riferitore, un personaggio che non ha alcun intento creativo o letterario.
Nel romanzo si parla molto di dipendenza – affettiva (il rapporto tossico tra Gargano e la madre di sua figlia; la responsabilità dell’essere genitore, che in questo caso vincola un padre in tutte le sue scelte), economica (il rapporto ambiguo tra Gargano e le sue tre fonti di sostentamento), psicofisica (l’alcolismo) –, a cui viene più volte contrapposto un desiderio di completa autosufficienza, una solitudine quasi ascetica, che prevede l’emancipazione dagli altri, oltre che dai principi sui quali poggia la società occidentale odierna (la stabilità economica, la medicina, lo stile di vita ecc.). Questa emancipazione somiglia molto a una sorta di autoemarginazione. Ritieni che sia possibile, oggi, perseguire modelli di esistenza alternativi senza finire per essere ghettizzati o per ghettizzarsi?
Conosco molte persone che vivono serene ai margini della socialità, e le invidio. Vivere un’esistenza alternativa non impone di autoghettizzarsi. Può essere una liberazione dalle pressioni sociali, la conquista di una maggiore autonomia. Dico soltanto che non tutti sono capaci di farlo. Molti si prendono in giro, si autoingannano. Vanno a vivere in campagna e poi impazziscono o si deprimono. Hanno crisi d’astinenza dalla socialità, che di certo provoca dipendenza come tutte le sostanze stimolanti usate male. In generale il tema della dipendenza mi sta a cuore. Il terrore di ammettere che possiamo fare a meno di tutto, anche della vita. Quel terrore che ci spinge a fare mille cose per non pensarci, a lasciarci ossessionare da cose frivole come l’amore romantico, a inseguire ideali preconfezionati.
Dall’altro lato, gli ideali e le posizioni personali non sembrano più orientare ma rappresentare completamente le persone. Mi ha colpito a tal proposito questo passaggio: «Ti fissi con un’idea, pensi che sia buona, ci investi tempo e denaro, la sostieni per anni e anche quando capisci che forse non era poi così valida a quel punto non hai più il coraggio di ammetterlo, perché ormai ti rappresenta, è diventata tutto, per te. Tutti abbiamo bisogno di un’idea che ci rappresenti». Il problema è la società che pretende il conformismo o l’individuo che investe troppa parte di sé nei suoi valori senza essere disposto a rinegoziarli?
La società non può imporre né pretendere niente. Le posizioni ottuse attuali prima o poi spariranno (e magari quelle oggi liberali risulteranno arretrate e indesiderabili in futuro, e così via, ad libitum). Io credo che buona parte di ciò che facciamo non sappiamo perché lo facciamo. Continuiamo a farlo perché lo facciamo da troppo tempo per interromperlo. Più a lungo facciamo una cosa, più tempo ci abbiamo investito, più ci sentiamo male all’idea di abbandonarla, ma non perché sia così importante o perché ci siamo affezionati, quanto per la sensazione di aver sprecato anni a inseguire una cosa, considerandola vitale e rappresentativa della nostra esistenza, quando avremmo potuto inseguirne un’altra e non sarebbe cambiato niente a nessuno. Faccio una cosa indecorosa, mi autocito: «Che poi è quello che facciamo tutti, speriamo che la perseveranza possa sostituirsi alla fede e portare agli stessi risultati, ed è per questo che le cose durano sempre più del dovuto, i lavori, i matrimoni, le tradizioni, portiamo avanti le nostre cose non perché ci crediamo ma perché altrimenti non ci rimarrebbe che ammazzarci». Metti il Festival di Sanremo: se sparisse per sempre, ma senza clamore, senza polemiche, senza dibattiti in tv, non se ne accorgerebbe nessuno, la gente non scenderebbe in piazza a manifestare; oggi se dichiari che non segui Sanremo passi per uno snob, è come se avessi l’obbligo morale e nazionalistico di guardarlo o quantomeno di rispettarlo, non ti è concesso di disprezzare le istituzioni che esistono “da sempre” per il solo fatto che esistono“da sempre”. C’è gente che parla del caffè italiano nei termini di un credo religioso estremista.
Descrivi una civiltà terrorizzata dalla malattia (il famoso “brutto male”), che profonde grande impegno nel far finta che la morte non esista. Allo stesso tempo, però, metti in luce anche l’ossessione che le persone nutrono nei confronti della malattia, una volta che questa si manifesta.
Non abbiamo confidenza con la morte. Facciamo di tutto per non pensarci. Non è tanto che ci spaventa morire, quanto che vorremmo saperlo con il giusto anticipo, per chiudere in bellezza, salutare tutti, fare un viaggio in Islanda. Siamo terrorizzati dall’eventualità di una morte improvvisa. Una vita di sacrifici per comprare una casa, mettere su una famiglia, farsi un nome, costruirsi una carriera, e poi dall’oggi al domani sparisce tutto. E la malattia è un’anteprima della morte. Negli ultimi vent’anni, grazie a Internet, ci sentiamo tutti «un po’ più consapevoli, quasi dei medici», ma la verità è che del nostro corpo e della salute ne capiamo meno che in passato. Lo vediamo come una macchina scissa dalla nostra personalità ormai virtualizzata, da un nostro avatar immortale.
Come è stato abbondantemente sottolineato, il titolo del libro fa riferimento a Rogozov, un medico russo che negli anni Sessanta si auto-operò di appendicite che tu citi soltanto in un’occasione. Spiegaci il motivo.
Quando l’ho adottato immaginavo un impatto simile a quello del Limonov di Carrère, ma prima ne sono venuti molti altri, di titoli, e nessuno mi ha mai convinto. Li odio, i titoli. Mi sembrano tutti buffi, delle caricature. Spesso penso: «I titoli sono finiti, sono rimaste le parafrasi». Per cui alla fine ho optato per un titolo che mi piacesse almeno dal punto di vista estetico, per quanto non dica molto al lettore. Va detto anche che nelle stesure precedenti Rogozov, il chirurgo, aveva più spazio, e così tutto il discorso sui medici, che invece con il tempo è finito in secondo piano.
Un concetto importante del libro mi sembra essere quello di miseria (intellettuale, economica, umana).
Sì, certo, è fondamentale, anche se non avrei molto da aggiungere alla tua domanda. Quando vivevo in Inghilterra mi dicevano spesso «Don’t be miserable», me lo dicevano ogni volta che non mi divertivo come tutte le persone che mi circondavano, eventualità piuttosto frequente, perché io sono una persona poco divertente già in Italia, figuriamoci in UK. «Don’t be miserable», mi dicevano, e io pensavo: «Ma come faccio? Intorno a me vedo soltanto miseria». Che poi è invidia. Chiamo miseria la facile felicità di quasi chiunque altro, l’ilarità incontenibile, la capacità di stare nelle cose. Mi sembra che si accontentino tutti delle apparenze e della superficie, ma di nuovo, è soltanto invidia, perché per me quelle apparenze e quella superficie sono più inarrivabili degli abissi. E così scrivo di miseria, sempre, perché è tutto ciò che vedo, probabilmente attraverso un filtro deformante. E poi, aggiungo, la miseria è quello che cerco dalla letteratura, sarà un approccio infantilmente decadente, ma la letteratura che dà conforto mi repelle, il conforto o il sorriso li ricevo volentieri dai film o dai fumetti, mentre – mea culpa – la letteratura mi piace cupa.
Concludiamo con un esercizio di immaginazione: come vivrebbe questo periodo storico Gargano e come si comporterebbe?
Non sarebbe un no-vax. Più probabilmente avrebbe fatto di tutto per prendersi il Covid in forma leggera e ottenere così il green pass, una, due, tre volte. Questo è più nel suo stile. Non è uno da manifestazioni, men che mai un hater da social. Vorrebbe soltanto essere lasciato in pace, a costo di suicidarsi pur di non essere strangolato dalla società.
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